Arte precaria, attivismo irresistibile
Alessandra Faccini
Che cosa si intende per attivismo artistico? Nonostante l’effetto disorientante che la domanda sortisce, proveremo a esplorare come un certo modo di fare attivismo all’interno del mondo dell’arte si configura oggi in Italia. (E sì, ha a che fare con il lavoro).
La sfida di ricostruire una cronologia lineare dell’attivismo artistico si scontra sin da subito con l’impossibilità di orientarsi rifacendosi a manifesti e protocolli specifici, scuole e canoni ufficialmente riconosciuti, o mercati di settore. Passo dopo passo, si attingerebbe piuttosto a quello che Gregory Sholette definisce un “archivio fantasma”, vale a dire un vastissimo repertorio di materiali e codici, per lo più ignorati dalla documentazione della Storia dell’arte, che si susseguono lasciandosi dietro un’infinità di tracce senza mai fornirne un inventario. Un serbatoio di progetti generati collettivamente, pratiche amatoriali e provocazioni oppositive relegati con una duplice mossa ai margini della cultura mainstream e recuperati prontamente allo stadio di quello “spettacolare integrato” di cui scriveva Guy Debord nei Commentari del 1988. Estetiche e cariche trasformative hanno quindi finito troppo spesso col nutrire il sistema contro cui si opponevano, garantendone la riproduzione indiscriminata. Rivolgersi ora a questa genealogia incredibilmente ricca e ramificata, significa tentare di cogliere una sorta di agentività ombra che aleggia in esperienze e paradigmi passati, di natura tendenzialmente conflittuale, bottom-up, e che ha attraversato più e più volte fasi di emersione e di inabissamento. Tratti ricorrenti fanno a intermittenza la loro comparsa, forme e contenuti pregressi riverberano nel presente offrendosi come strumenti potenzialmente riutilizzabili – anche qui vige una certa economia del riciclo. Ma la domanda del “che cosa resta da riattivare” e soprattutto del “come farlo” rimane pendente, e riceve di volta in volta risposte differenti che riflettono la specificità dei luoghi e dei tempi in cui la si pone. In questo testo proveremo a rintracciare la cifra caratteristica di un preciso modo di fare attivismo in Italia oggi, in grado di operare – alla maniera dei “cavalli di Troia” di cui parlava Lucy Lippard – sia dentro che fuori la fortezza assediata che è la cultura alta o il mondo dell’arte. La osserveremo nel suo darsi attraverso degli esempi correnti di resistenza, e ci chiederemo se, e perché, l’arte sia da sempre un dispositivo chiave di lotta.
Limitandoci a un orizzonte temporale recente e a geografie principalmente Western, il fenomeno dell’attivismo artistico nelle sue svariate configurazioni, soggettività, e matrici ispirative, dopo la critica totale dell’Internazionale Situazionista, la rivoluzionarietà del Sessantotto e la dissidenza degli anni Settanta, ha conosciuto, all’inizio del ventunesimo secolo, una fase di riaffermazione e iper-visibilità su larga scala: da Occupy a Black Lives Matter fino a Decolonize This Place, artistə, curatorə, teorichə e practicioners impegnatə nell’attivismo, ma anche attivistə che hanno optato per linguaggi artistici, si sono mobilitatə tornando a occupare le strade e a politicizzare lo spazio pubblico. Storicamente, la contrapposizione tra arte e attivismo – e di conseguenza anche lo strenuo mantenimento di tale polarizzazione – può dirsi riconducibile a motivazioni di carattere ideologico, funzionali, innanzitutto, a negare sia quell’agibilità politica che l’arte parrebbe dischiudere sia il ruolo dell’artista come agente sociale e di cambiamento. Alla produzione simbolica non sarebbe quindi concessa la capacità di generare quegli stessi effetti autenticamente trasformativi che solo l’azione diretta renderebbe possibili. Parallelamente, negli ultimi anni quote dello scenario artistico istituzionale (musei, biennali, festival ecc.) hanno intrapreso più o meno consapevolmente una traiettoria di sabotaggio gentile volto a svuotare la radicalità insita a esperienze situate, imboccando la via della sovrarappresentazione tramite l’adozione di un approccio mimetico piuttosto che performativo: quella modalità estrattivistica di cui tanto si discute, che enuncia anziché aprire a uno spazio di reale soggettivazione. 01
Il discorso si lega in parte anche all’annosa questione dell’autonomia artistica, che, a partire da fine Ottocento fino ad arrivare ai giorni nostri, ha subito un ripensamento sostanziale. Se il modello partorito dalle avanguardie europee a cavallo tra XIX e XX secolo si fondava infatti sulla separazione dell’arte dalla vita per preservare la potenzialità critica della prima, quello che invece è successo tra gli anni Novanta e i primi Duemila, passando per la fase di dematerializzazione della pratica artistica all’altezza dei Sessanta a Settanta, è stato l’emergere di una concezione di autonomia in grado di tenere insieme etica ed estetica, e di rivendicare così un peso specifico dell’arte nel percorso che va dal rimodellamento della coscienza individuale all’azione collettiva, fino alla trasformazione sociale e politica. Sono gli anni in cui si assiste alla proliferazione incontrollata di nuove categorie (new genre public art, esthétique relationnelle, socially engaged practices, community-based projects, dialogical devices ecc.) e dei relativi dibattiti teorici, che mettono costantemente in discussione il rapporto tra autonomia ed eteronomia, ponendo di volta in volta l’accento su alcuni dei perni concettuali di questo “campo espanso” che stiamo pian piano provando a delineare: partecipatività, collettività, autorialità, co-creazione, conflittualità, processualità, solo per citarne alcuni. 02
Il tutto, fa notare Claire Bishop, senza che, forse, sia stato mai posto sufficientemente l’accento sulla problematicità del servirsi spesso e volentieri di termini ed espressioni per la stragrande maggioranza americani per riferirsi a contesti non-Western: laddove le democrazie liberali europee e statunitensi definiscono per esempio “attivistə” tuttə coloro che sostengono azioni atte a favorire un cambiamento politico e sociale, nei regimi autoritari e repressivi quellə stessə attorə verrebbero identificati come “dissidenti”, mossə da ragioni e intenti di ben altro tipo. La dialettica tra attivismo e dissenso, unitamente alla tensione che intercorre tra zone di conflitto socio-politico a bassa e ad alta intensità, scorre senz’altro lungo le trame dell’arte contemporanea, contribuendo alla complessificazione di un quadro utile alla riflessione sulla pratica artistica in senso lato come motore di rinnovamento.
Ma lo slittamento ulteriore su cui intendo soffermarmi riguarda l’idea che nessuna forma di autonomia estetica così come viene intesa nel pensiero delle avanguardie, cioè di un’arte che per essere definita tale, non deve sporcarsi le mani con il reale, sia concepibile se non tramite l’occultamento del lavoro che la origina. Senza addentrarci nelle trattazioni di stampo post-marxista a sostegno del tema, mi preme sottolineare come anche i recenti sviluppi relativi a quel campo in continua espansione cui abbiamo sopra accennato, nonostante prendano dal principio le distanze dalle condizioni di produzione tipiche dell’arte – che, citando proprio Vishmidt, “continuano a svolgersi su base personalizzata e feudale, strutturata dal nesso artista-galleria-collezionista e dai mercati opachi in cui si muovono” – abbiano comunque finito con l’esacerbare alcune dinamiche tipicamente neoliberali. Iniziative ascrivibili all’universo multiforme del socialmente impegnato, soprattutto in aree caratterizzate da disinvestimento e diversità, si sono talvolta tradotte in espressioni di disciplinamento, soluzioni palliative, o postartistic services erogati silenziosamente dall’alto: nient’altro che nuove formule di mercificazione dell’arte, che incoraggiano il lavoro salariato a considerarsi creativo e, di conseguenza, più facilmente sfruttabile. 03
Tornando ora indietro all’arresto forzato di quel mondo messo in pausa dalla pandemia di Covid-19, l’eccezionalità della situazione ha indubbiamente fornito l’occasione per accelerare la riflessione sulle condizioni lavorative interne al settore artistico tanto in ambienti istituzionali quanto in contesti più auto-organizzati; si è insistito soprattutto sulla rivendicazione dei diritti non solo di artistə e curatorə, ma anche della cosiddetta “materia oscura” fatta di professionalità essenziali al mantenimento della parte visibile, ufficiale e mainstream del sistema, e che più di tutte risente dell’impatto schiacciante della crudele economia dell’arte contemporanea – che, lentamente, ne sta decretando tra l’altro la decomposizione. 04

Kuba Szreder nel suo The ABC of the Projectariat del 2021 conia nello specifico una nuova categoria di projectarians, riferendosi alla vasta schiera di freelance artistichə di tutto il mondo, che realizzano progetti per vivere, “senza avere nulla da perdere se non le deadlines”. In uno scenario di precarietà privilegiata tinto di toni post-fordisti che si celano sotto i false friends di flessibilità, imprenditorialità e nomadismo – il cui livello di praticabilità dipende in vero dal disporre o meno di un passaporto “forte”, di un corpo abile o di una buona salute mentale – ciò che ha la meglio è proprio il privilegio, soprattutto quello di classe: una carriera che non può garantire un reddito regolare all’interno di un settore già storicamente esclusivo, attirerà per lo più coloro dotatə di un qualche cuscinetto in grado di assorbire il rischio dell’incertezza.
Senza un benessere o un privilegio ereditato, come rileva acutamente Lise Soskolne in Artists’ Survival Kit del 2023, ci si trova a dover fare i conti con un “tricky business”, il fatto, cioè, che la capacità dell’artista che opera nel non-profit, nel politicamente o socialmente impegnato – direi quasi del lavoratorə culturale in generale – di sopravvivere materialmente e di continuare a praticare nel lungo termine richiederà a un certo punto di incassare il proprio capitale morale sul mercato commerciale, compromettendone la “purezza”, e inquadrandolo così nella formula secondo cui venderlo equivarrebbe a svenderlo. Al contrario, se come artista si opta per la conservazione del capitale morale rifuggendo dal mercato commerciale, probabilmente se ne pagheranno le conseguenze a livello di sostentamento. Oppure, si finisce col sottomettersi a quelle modalità di supporto e promozione del lavoro artistico che rispondono in realtà alle stesse logiche da cui ci si vorrebbe sottrarre: il rapporto tra struttura di produzione e prodotto è profondamente intricato poiché entrambi riposano sulla stessa base economica, come succede nel caso del proposal writing, quella forma-bando-progetto che rischia ogni volta di mutare la pratica artistica in procedura. Scrivere la proposal diventa, insomma, parte dell’(art)work stesso, incorporando sin dal suo primissimo concepimento il flusso di capitale (culturale e non) che lo sorregge.
È già qui, nell’apparente inconciliabilità tra l’economico e il morale per come siamo abituatə a conoscerli, che la divisione sociale interna al settore emerge come uno degli ostacoli nodali alla collettivizzazione. Fare attivismo artistico oggi ha forse allora a che vedere piú con il portare avanti battaglie che riconoscono e contrastano in primis la sfera materiale a partire dalla quale muovono, e che non si limitano a una dimensione puramente sovrastrutturale e simbolica, ma che provano piuttosto a convertire la radicalità dichiarata in azioni di effettiva modifica sociale. Il rischio di scollamento dal piano della concretezza e il pericolo di assimilazione delle lotte possono essere scongiurati rimanendo ancoratə a una lettura della realtà che non distolga lo sguardo dagli elementi strutturali, dai modelli di produzione, dalle leggi del profitto, dal funzionamento del mercato e dai dictat di consumo, e che permetta di fare fronte comune.
Nel 2022 alcunə componenti dell’Institute of Radical Imagination (IRI), piattaforma nomade composta da artistə, ricercatorə, attivistə e curatorə impegnatə nell’esplorazione e sperimentazione militante di pratiche artistiche post-capitalistiche, pubblicano Art for UBI, un manifesto programmatico, nato dall’esperienza di School of Mutation durante il primo lockdown, che avanza la posizione di una coalizione di lavoratorə del settore artistico a favore del reddito di base universale e incondizionato, rifiutando di investire in logiche corporativiste e identitarie. Oltre a sottolineare la vantaggiosità della proposta in termini economici, sociali ed ecologici, Art for UBI riconosce e promuove il valore generato e messo in circolo da tutte quelle forme di mutualismo, cura e cooperazione già in corso e a venire, esplicitando il debito nei confronti di un certo femminismo, quello marxista, che, a suo tempo, aveva individuato proprio nello sfruttamento e nell’invisibilizzazione della forza riproduttiva l’architrave su cui poggia il capitalismo: alle femministe si deve il merito di aver riportato al centro del dibattito la materialità e di aver proposto modalità altre di relazionalità sociale. Sempre IRI, a maggio 2023 lancia in collaborazione con S.a.L.E. Docks Biennalocene, un’inchiesta performativa che ha dato luogo a un ciclo di assemblee di lavoratorə dell’arte e della cultura di Venezia per discutere delle condizioni di precarietà e sfruttamento che caratterizzano il settore artistico di una città colonizzata dai grandi capitali finanziari stranieri e semestralizzata dalle kermesse culturali di respiro internazionale. Gli incontri avvenuti tra giugno e ottobre dello stesso anno hanno portato alla Carta Metropolitana del Lavoro Culturale, un documento realizzato collettivamente da professionalità diverse tra loro per mansione, contrattualizzazione e aspirazioni (mediatorə, cleaners, guardiasala, performer ecc.) e presentato alle istituzioni cittadine richiedendone l’adozione.
Nel corso del 2020 si costituisce invece AWI - Art Workers Italia, la prima associazione autonoma e apartitica nata per dare voce allə lavoratorə dell’arte contemporanea in Italia. Pur non trattandosi formalmente di un sindacato, AWI sorge in risposta alla mancata erogazione da parte del governo italiano, nel pieno della pandemia, dei fondi di emergenza allə artworkers, non conteggiatə tra lə destinatariə degli ammortizzatori sociali a differenza di altre tipologie di lavoratorə. L’impegno attivistico di AWI richiama esperienze storicizzate affini: alcune vere e proprie fonti di ispirazione, altre menzionabili in quanto riferimenti culturali condivisi. Tra queste, figura ovviamente Art Workers’ Coalition, il gruppo di attivistə che si unirono a New York nel 1969 per promuovere i diritti dellə artistə e per sfidare l’establishment culturale della città ad attuare una serie di riforme: l’obiettivo dichiarato era di fare pressione sui musei (partendo dal MoMA, emblema del sistema museale internazionale) e sulle istituzioni d’arte per porre fine alle discriminazioni e alle disuguaglianze nella politica espositiva e remunerativa americana e non. Attiva dal 2010 al 2018, la Precarious Workers Brigade di Londra, sorta con l’avvento dell’austerity britannica e della privatizzazione del settore artistico, è stata animata da lavoratorə della cultura e dell’istruzione a sostegno della giustizia sociale, attraverso lo sviluppo di ricerche e azioni concrete, rilevanti e facilmente applicabili. O ancora, fondata nel 2008 sulla scia della lunga tradizione americana che dagli anni Trenta si batte per una proporzionata remunerazione del lavoro culturale, W.A.G.E. (Working Artists and the Great Economy) è riuscita a mettere a punto protocolli di compensazione e standard minimi di pagamento per artistə che espongono in istituzioni non-profit negli Stati Uniti, sollevando una serie di questioni legate, tra le altre, al tema dell’assicurazione sanitaria, dell’assistenza all’infanzia e del diritto di rivendita. In risposta allo stato attuale di feroce deregolamentazione del settore, W.A.G.E. immagina un mercato del lavoro meno instabile, in cui siano i sindacati e le associazioni a stabilire linee guida esplicite. In Italia, similmente, AWI ha deciso di operare in stretta collaborazione con espertə in ambito fiscale, legale e amministrativo, università, enti di ricerca, istituzioni artistiche e culturali per costruire strumenti etici, contrattuali e giuridici a tutela dellə artworkers e con l’obiettivo ultimo di riformare il settore, rendendolo più inclusivo, sostenibile e trasparente, rigettando l’idea di un’arte convinta del proprio presunto eccezionalismo e incapace di rientrare in categorie misurabili di qualsiasi tipo.
Dal 2019, invece, la rete transfemminista Il Campo Innocente, formata da artistə, performer e lavoratorə dell’arte, si adopera per la visibilizzazione dell’inestricabilità del legame tra violenza, sessismo e precarietà lavorativa, sottolineando come in Italia la mancanza di welfare per lə lavoratorə dello spettacolo e la precarietà economica del settore lə renda più vulnerabili ed eccessivamente espostə nelle relazioni professionali. L’arte non si configura, quindi, come un campo neutro e innocente, né come zona di eccezionalità o privilegio, bensì come territorio di conflitto in cui combattere il lavoro non o mal pagato, le egemonie politiche e culturali e le modalità competitive, verticistiche, abilistiche, patriarcali, narcisistiche ed eteronormate. Dalla riflessione sull’era post-pandemica al sostegno in favore del reddito di base universale e incondizionato, dalle proteste a inizio anno per la nomina “con manovre ai limiti della legittimità” del Presidente Generale del Teatro di Roma fino alla mobilitazione pro esclusione del Padiglione di Israele dalla Biennale Arte 2024 all’interno della campagna “Italian Arts Watch”, frutto della collaborazione tra alcuni gruppi (tra cui anche AWI) e singolə artworkers, Il Campo Innocente rivendica la possibilità di mettere radicalmente in discussione l’esistente e il diritto a “volere tutt’altro”.
Il merito dell’esperienze appena menzionate sta nell’aver attivato – attraverso anche la valorizzazione di quella che, forse, è la peculiarità più altamente generativa dell’arte, e cioè quella capacità autoriflessiva che le appartiene costitutivamente – dei processi di contro-soggettivazione decisivi, ricordando ancora una volta come l’opposizione allo status quo non derivi automaticamente dalla condizione di subalternità. Anche in Marx la classe non è centrale in quanto sfruttata, ma perché indispensabile al funzionamento della macchina capitalistica; intendere la classe per come si dà nel processo produttivo e in rapporto all’organizzazione tecnica però non basta: in Italia abbiamo la fortuna di poter guardare a un’eredità che ha segnato la storia politica e culturale del nostro Paese, ossia quella che discende direttamente dall’operaismo. È all’interno di questo contesto fertile che è stato elaborato il metodo della composizione di classe, in grado di offrire una lettura materialistica della produzione di soggettività, senza la quale non è pensabile disporre di alcun momento di riorganizzazione politica. Il capitale soggettivizza, ed è questa l’arma più insidiosa che all’occorrenza sfodera. Ed è sempre per questa ragione che i soggetti subalterni sono portatori di una forte ambivalenza. Indagare la classe quale insieme dinamico, disomogeneo e storicamente determinato, anche relativamente a come pensa, vive e desidera è quindi cruciale per, “smantellare le nostre strutture desideranti”, come scrive Emanuele Braga in Art for Radical Ecologies: “l’economia reputazionale ad alto valore aggiunto, la competizione tra curricula, la visibilità sul mercato, il privilegio di essere un membro bianco e maschio della specie umana, la femminilizzazione del corpo, una cultura manageriale e pianificatrice, la monocoltura del progetto, il tecnofeticismo, l’abilismo, un approccio estrattivistico alle risorse naturali... tutte queste strutture, dispositivi che addestrano i nostri corpi ad agire e che costruiscono il nostro modo di vedere, sono in ultima analisi discutibili”. 05
Mobilitare il desiderio, decolonizzandolo dall’ingerenza disciplinatoria e prescrittiva introiettata, vuol dire scommettere sulla qualità che gli è propria: eccedere le definizioni normative del potere. La scrittrice, artista e attivista Toni Cade Bambara in un’intervista aveva dichiarato che, come operatrice culturale appartenente a un popolo oppresso, il suo lavoro era di “rendere la rivoluzione irresistibile” (“to make revolution irresistible”). Per lei, la produzione culturale afroamericana era una strategia straordinaria per il cambiamento e la resistenza.
La domanda sul modo in cui il fare arte oggi possa ispirare il desiderio di una trasformazione generalizzata delle nostre realtà sociali e materiali rimane inaggirabile. La riga vuota qui sotto rappresenta lo spazio da riempire con le risposte che ci accorrono in aiuto, o, se si preferisce, da lasciare per il momento vuoto.
Poco prima di iniziare a ragionare su questo contributo, mi è capitato di assistere alla tavola rotonda su editoria, classe operaia e lotta di classe durante la seconda giornata del festival di letteratura working-class alla ex-GKN Driveline di Campi Bisenzio (Firenze). Gli argomenti dibattuti nel corso della talk e gli interventi dellə relatorə presenti hanno continuato a risuonarmi per giorni, finendo col fondersi in un tutto indistinto di appunti sconnessi dove le indicazioni su chi ha detto cosa sono andate via via sbiadendo. Li riporterò così come si sono depositati quel giorno sul foglio bianco:
• La difficoltà di fondare un sindacato tra persone che, spesso, non lavorano propriamente insieme, in cui vige un po’ la regola dell’autorialità, del remote working, e dove tutta questa frammentazione è pure gratificante perché è il sistema che ce lo fa pensare (Silvia Gola, RedActa, sindacato di chi lavora con i libri);
• Cospirare invece che competere (?);
• È importante che a cambiare non siano solo le storie che si raccontano ma anche i modi di produzione che rendono possibili certe forme di rappresentazione. Le narrazioni si cambiano solo cambiando le condizioni di lavoro (?);
• A volte dentro di noi si produce una sorta di dissonanza cognitiva. Il sapere può creare una società diversa. Frammentati e sopraffatti come siamo da una solitudine pervasiva perché non ci rendiamo conto, oppure lo sappiamo ma facciamo finta di niente, che siamo tutti nella stessa situazione (Francesca Coin, sociologa).
Alessandra Faccini
Nata nel profondo Veneto, Alessandra Faccini è dottoranda in Architettura al Politecnico di Torino. Dopo la laurea in Filosofia e la formazione in studi e pratiche curatoriali, porta avanti una ricerca interdisciplinare sul concetto di autonomia in ambito artistico e spazialista. Ha da poco pubblicato su Il Tascabile l’articolo “Per un ambientalismo working-class. Convergenza delle lotte ed ecologia della speranza nel caso GKN”.