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Più sorrisi? Più soldi. Contro il divenire donna del lavoro artistico

Elvira Vannini

Se l’arte, come il lavoro di cura, è un lavoro d’amore, che cosa possiamo imparare dalle lotte femministe per il salario al/contro il lavoro domestico? Partendo da questa importante eredità teorico-politica, in questo articolo cercheremo di approfondire il ruolo del desiderio nella normalizzazione di modalità di lavoro precarizzanti ed estrattive che ancora oggi domina il sistema artistico contemporaneo.

Ci voglion sorridenti e serenema noi non sorridiamo piùdi ribellione e rabbia siamo pienefingere non vogliamo più!
Il Canzoniere Femminista

“Sorridi tesoro, cosa c’è che non va?” è una cosa che ogni uomo si sente autorizzato a chiederti, che sia tuo marito, il bigliettaio sul treno o il tuo capo al lavoro.
Silvia Federici

È una strana condizione, quella che regola il sistema artistico e i suoi rapporti sociali. Una delle anomalie del campo culturale e creativo, infatti, sta nell’impossibilità di separare il desiderio dalla retribuzione salariale. Rompere il mito patriarcale che l’arte sia un luogo di eccezionalità (fatto di geni e ispirazioni romantiche) fa emergere la consapevolezza del suo divenire, piuttosto, paradigma della femminilizzazione del lavoro contemporaneo, nell’asservimento alla precarietà strutturale (ed esistenziale) e nella coercizione al lavoro gratuito. Il precariato non è più qualcosa di congiunturale ma è diventato una condizione permanente, accompagnata dalla discontinuità e dall’intermittenza temporale. D’altra parte, l’arte non è un’entità astratta o metafisica, ma è calata dentro un preciso rapporto sociale, quello del capitale. Ed è proprio a partire dalla centralità della riproduzione sociale, in quanto attività naturalizzata, svalutata e invisibilizzata, in cui non è possibile quantificare il tempo di lavoro da quello della vita, della cura e degli affetti, che i femminismi ci hanno insegnato qualcosa di potente: non bisogna mai separare la lotta contro il capitale dal problema della riproduzione delle nostre vite, del controllo dei corpi.

Image Manifestazione femminista, fotografia tratta da EFFE, dicembre 1973.

La configurazione della temporalità soggettiva del grande ciclo di lotte del femminismo storico, all’inizio degli anni Settanta, ha assunto una matrice anti-narrativa, denaturalizzando efficacemente l’ontologia modernista di matrice patriarcale. Ripristinare i canali di trasmissione con il passato ha consentito l’affioramento delle due diverse anime del femminismo italiano: da una parte la forza e l’urto del movimento di liberazione della donna che gli scritti di Carla Lonzi hanno fenomenizzato, attraverso i gruppi di autocoscienza, il pensiero della differenza e la svolta verso il simbolico; dall'altra, intorno alle stesse date, un diverso epicentro dell’emersione del Soggetto Imprevisto. Fuori dalla cucina e dalla stanza da letto (Silvia Federici), le pratiche di piazza e i gruppi del salario al/contro il lavoro domestico ripensano totalmente la lotta di classe perché la separazione patriarcale fra uomo e donna diviene immediatamente separazione capitalistica.

Image Cfr. Red Womens Workshop, “Capitalism also depends on domestic labour”, 1970s-90s, feminist silk-screen poster collective, UK.

Le lotte che si sono avvicendate tra i gruppi per il salario al lavoro domestico entrano nella genealogia femminista delle nostre lotte di oggi, nelle sfide poste dal presente e nella “ridefinizione, dalla parte dei corpi differenti e dissidenti, di ciò che è lavoro e di ciò che è espropriazione”. 01

Quello che è stato definito “il femminismo marxista della rottura” è la storia dell’incontro tra il marxismo (e il suo rimosso) con il femminismo radicale, a partire dalla dimensione militante e transnazionale del coordinamento della campagna Wages for Housework groups and committee del collettivo di Padova dove, nel 1972, si incontrarono Mariarosa Dalla Costa, Selma James (Londra), Silvia Federici (New York), Brigitte Galtier (Parigi), Leopoldina Fortunati e Alisa Del Re, aprendo un varco sovversivo nella lotta delle donne, da una prospettiva anti-capitalista. 02

L’impegno domestico, con il valore della sua produzione e la sua gratuità, che corrisponde ancora oggi al “destino femminile” del lavoro riproduttivo e di cura, diventava la scoperta di un rapporto sociale senza nessuna mediazione salariale, al centro dello sfruttamento, della subordinazione e dell’organizzazione capitalistica del lavoro. L’enfasi era posta su un’attività (la centralità della riproduzione sociale) e non su una condizione femminile aprioristicamente data e biologicamente assegnata, presente ancora oggi in tante posizioni essenzialiste, identitarie e di natura neoliberale o istituzionalizzate, nel soccombere alle promesse dell’emancipazione. La rottura, invece, si manifestava con il rifiuto di un ruolo storicamente assegnato sotto il comando della famiglia eteropatriarcale: un assoggettamento talmente naturalizzato da rendere invisibile lo sfruttamento.
Anche Rivolta Femminile scriveva nel suo manifesto che il capitalismo non ha creato l’oppressione della donna ma l’ha ereditata da secoli e secoli di patriarcato. Secondo Lonzi, il marxismo non ha mai precisato il rapporto tra la donna e la sfera della riproduzione, tralasciando il ruolo produttivo delle donne, confinate nel lavoro domestico per rigenerare la forza-lavoro, senza considerare quella cooperazione di cui il capitale si appropria senza pagare. La critica femminista ha insistito sulla centralità del lavoro di riproduzione sociale senza rivendicare in alcun modo la partecipazione al potere ma, al contrario, mettendo in discussione il concetto stesso di potere e di presa del potere.

“Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato”, scriveva Silvia Federici in Salario contro il lavoro domestico, perché il capitale ha fatto un vero capolavoro: non solo lo ha reso un lavoro (di cui si appropria senza contropartita monetaria attraverso l’erogazione gratuita di servizi fisici, emotivi e sessuali) ma anche un’aspirazione per tutte le donne, quella vocazione femminile mistificata in un atto d’amore e remunerata dall’affetto dei propri cari. È da queste premesse che si forma il Gruppo Femminista Immagine di Varese, una delle poche organizzazioni collettive femminili dentro il sistema artistico italiano, fondato nel 1974 da Milli Gandini e Mariuccia Secol, in rapporto alle richieste di denaturalizzazione e ridistribuzione del lavoro domestico che, pur necessario per il funzionamento del capitale, è reso invisibile con la totale rimozione dalla sua relazione salariale. 03

“Le operaie della casa hanno scioperato! Tutte fuori dalle case! Soldi alle donne! Potere alle donne!” Ancora oggi sembra riecheggiare la vitalità dei versi de Il Canzoniere Femminista (Gruppo musicale del Comitato per il salario al lavoro domestico) osservando la fotografia di una manifestazione a Napoli nel 1976: musica, canti e danze, perché il femminismo è stata una festa, l’emersione imprevista nella potenza creativa delle lotte. Sullo sfondo del palco un grande banner recita “Anche l’amore è lavoro domestico”, realizzato proprio dalle artiste del Gruppo Femminista Immagine di Varese, diventato iconico per la capacità di coniugare “militanza gioiosa” e sperimentazione estetico-politica. 04

Image “Anche l’amore è lavoro domestico”, Gruppo femminista Immagine di Varese (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol e Mariagrazia Sironi), manifestazione, 1975

Il “patriarcato del salario”, lo aveva definito sempre Federici analizzando il declassamento della posizione sociale delle donne, la svalutazione e l’assoggettamento del lavoro riproduttivo (faccende domestiche e lavoro di cura, sessualità e procreazione) da sempre escluse dal contratto sociale. La casa eterosessuale, storicamente naturalizzata come femminile, è accanto alla fabbrica, l’altro polo dell’oppressione: un’accumulazione di differenze e di divisioni nella classe lavoratrice, esacerbate dentro la famiglia nucleare, l’istituzione più importante per l’occultamento del lavoro delle donne ma anche focolaio di un possibile contraccolpo antisistemico. 05

La lotta delle donne, così come quella dei colonizzati, è duplice: oggettiva (contro il capitalismo) e soggettiva (contro l’assoggettamento della cultura patriarcale), sostiene Maurizio Lazzarato in rapporto alla tradizione del movimento operaio, in quanto si sommano il dominio sessuale e razziale con lo sfruttamento economico. 06

Negli anni della contro-rivoluzione neoliberale, la polarizzazione originaria del movimento - i gruppi dell’autocoscienza e il pensiero della differenza da una parte, l’area del salario e il femminismo marxista della rottura dall’altra - volterà verso il simbolico, dismettendo la possibilità di rovesciare i rapporti di forza tra genere e capitale. Contro un ciclo di lotte così potente, come accadde allora per altre mobilitazioni, il comando capitalistico replicherà con durezza: la risposta alle battaglie del/contro il salario, non sarà soltanto negativa ma fortemente repressiva; la sua storia sarà praticamente cancellata, insieme al portato rivoluzionario delle sue teoriche, ignorate nelle università, nel dibattito politico e dalla memoria collettiva della seconda ondata. 07

Solo oggi queste istanze sono tornate con forza nelle piazze, per le strade e nelle assemblee, oltre che in posizioni minoritarie nel mondo dell’arte e della cultura. Questo non significa una maggiore rappresentanza di soggettività genderizzate e razzializzate ai vertici del mondo economico e culturale, “si tratta, piuttosto, del lavoro della differenza, di quello scarto o eccedenza, irriducibile alla sola dimensione economica” o di inclusività. 08

Image “We Can’t Afford to Work for Love” è il primo flyer prodotto da New York Wages for Housework Committee e distribuito a Prospect Park nel 1974. Silvia Federici Papers, Pembroke Center for Teaching and Research on Women, Brown University

Il modello con cui il lavoro è stato somministrato alle donne, addestrate per secoli e secoli al ruolo riproduttivo, è stato definito come “femminilizzazione del lavoro”: le qualità (interiorizzate, svalutate ma messe a valore) attribuite al lavoro di cura, insieme alle competenze comunicativo-relazionali femminili (i legami sociali, l’affettività, l’empatia e l’intelligenza emotiva, i sorrisi e la stessa corporeità) maturate nella sfera riproduttiva ed erogate spesso in regime di semi o totale gratuità, vengono generalizzate a tutto il lavoro contemporaneo, anche per gli uomini, che diventa sempre più flessibile, intermittente, precario, privo di tutele e diritti. Cristina Morini in proposito afferma:

“Si impiegano fedeltà, partecipazione, un tempo infinito senza che nulla sia garantito da una qualche forma di patto, pur tra attori diseguali. Tutto questo suggerisce collegamenti istruttivi con l’esperienza propria del lavoro domestico, non pagato e oblativo (non si attende contraccambio) delle donne. In sostanza, femminilizzazione, soggettivazione, precarizzazione e cognitivizzazione si articolano l’una nell’altra, definendo una comune condizione lavorativa.” 09

Image Cfr. Red Women’s Workshop, Feminist Poster, 1974.

Cosa ci spinge a lavorare gratuitamente nel mondo dell’arte? Perché siamo costrette a performare quel tipo di soggettività? Forse nella speranza, in futuro, di un riconoscimento economico e sociale, per accrescere il nostro curriculum e fare esperienza, o solo per ottenere visibilità come “ricompensa”? Sono forme del “ricatto” talmente pervasive, perché ci crediamo, lo facciamo per passione e perché questa è la nostra vita. Ma è anche “la più grossa manipolazione” e “la più sottile e mistificata violenza operata dal capitale”, per dirla meglio con Silvia Federici. La precarietà è sempre ricattabile e lo sfruttamento delle risorse affettive, relazionali, intellettuali (e artistiche) è sempre politicamente invisibile.
Se tutto questo è inaccettabile in qualsiasi forma di organizzazione sociale, lo è ancora di più nel regime di gratuità imperante nel lavoro artistico, nei discorsi sull’auto-imprenditorialità di tutte quelle figure freelance, artisti, curatori, grafici, autori, che lavorano nell’editoria di settore, in gallerie, fondazioni, musei, ecc. che ha portato (negli ultimi quindici anni, da quando queste riflessioni sono iniziate nel mio percorso, in cui la situazione non solo non è cambiata ma è addirittura peggiorata) a una dequalificazione dei saperi, alla precarizzazione della forza-lavoro, alla falsità delle retoriche e dei processi di mediatizzazione. Quale è, invece, la controparte nel sistema dell’arte? Artwashing, regimi proprietari e accumulazione di ricchezze, ingenti assi patrimoniali, disuguaglianze sociali e disparità economica.
Apparteniamo a un segmento produttivo ancora fortemente invisibilizzato e precarizzato, dentro un sistema artistico le cui ambivalenze e contraddizioni, da anni, abbiamo (inevitabilmente) imparato a conoscere ma non sempre ad accettare. La struttura dei rapporti di potere che regola le nostre vite e determina le forme dell’oppressione è immodificabile (a meno che non si incida nei rapporti economici o di produzione). Se essere incluse significa pacificare i conflitti, come possiamo riscattare quelle voci femministe che nel dibattito istituzionale sono state soppresse o messe a tacere, non con la repressione ma piuttosto con l’integrazione, dunque sussunte all’interno del meccanismo, tra quote rosa e mercato dell’arte?

Se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace di trasformare la società, scrive Federici in Il punto zero della rivoluzione, “dobbiamo abbandonare la prospettiva sia dell’uguaglianza che della differenza, poiché entrambe non contestano l’organizzazione capitalista del lavoro con tutto il suo carico di sfruttamento, rapporti sociali razzisti e sessisti, la rapina continua della ricchezza che produciamo e l’immiserimento generale della società”. 10

Finchè continueranno le condizioni del capitalismo attuale, e la sua immensa capacità estrattiva, quale azione sarà ancora possibile? Abbiamo ormai ripetuto più volte quanto questo mondo dell’arte razzista, patriarcale e classista, con un struttura governamentale e di soggettivazione neoliberale, cristallizzi le principali contraddizioni e ingiustizie del capitalismo finanziario, di cui rappresenta una delle punte più avanzate. Dobbiamo sollevare queste contraddizioni. Nessuna richiesta di natura vertenziale sarà efficace se non si rovesciano i rapporti di forza tra genere, capitale e lavoro. Se non si prova a reimmaginare e socializzare la produzione artistica, sottraendola alla messa a valore del capitale, creando alleanze tra soggettività, corpi, saperi partigiani femministi e transfemministi. Siamo nel tempo del neocolonialismo (e fascismo) più violento, tra vecchie e nuove recinzioni, l’espropriazione di libertà ha assunto il vocabolario delle industrie culturali: non possiamo definirci politicə senza politicizzazione. Al neoliberalismo fascista, la controffensiva femminista risponde con l’insubordinazione: “né vittime, né imprenditrici” (entrambe forme di soggettivazione neoliberale), ci ricordano Cavallero-Gago:

“Al governo delle finanze si oppongono le pentole-calderoni. Le pentole nelle strade tessono la trama di una politica fatta di corpi resistenti, accendono fuochi collettivi per rispondere alla condizione di inesistenza alla quale ci vogliono condannare, e gridano: non abbiamo paura!”

Image Elvis Richardson, “The Pool of Artists”, 2014. Courtesy The Countess Report

Elvira Vannini

Elvira Vannini è storica dell’arte e critica d’arte. Dottore di ricerca in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna, diplomata presso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte, ha tenuto seminari e lectures in numerose Istituzioni. Attualmente è docente presso il dipartimento di Arti visive e studi curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Ha fondato “HOT POTATOES. Art, Politics, Exhibition Conditions”, blog/magazine research-based, dedicato all’esplorazione del rapporto tra arte e politica attraverso l’analisi dei complessi espositivi, da una prospettiva femminista.

Nota