capsule digitale

Che tipo di lavoratorǝ forma l’educazione artistica? Parte prima

Simona Barbera, Beatrice Catanzaro, Alessandro Tartaglia, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti

Partendo dall’indagine di settore svolta da AWI nel 2021 che evidenzia come lɜ lavoratorɜ dell’arte contemporanea possiedano una elevata professionalità, emergono diverse criticità legate alla preparazione pratica per l’ingresso nel mondo del lavoro, come la gestione del portfolio e la ricerca di finanziamenti, così come l’inadeguatezza e arretratezza di strutture e programmi e l’impatto della crescente finanziarizzazione e internazionalizzazione dell’educazione artistica, con implicazioni per inclusività e multiculturalità. Un dialogo su opportunità, limiti e proposte per il futuro della formazione artistica e della cultura visuale in Italia.

Presentazioni

00:00:01

[Fabiola Fiocco]: Ciao a tutte e a tutti e benvenute alla sesta puntata del podcast Baci da AWI, la capsula digitale del Giornale dell’Arte realizzata da Art Workers Italia. Trovate l’indirizzo al sito nella descrizione del podcast. Baci da AWI racconta come le lavoratrici dell’arte e della cultura si muovono nell’attuale scenario economico e politico italiano. È un contenitore di pratiche di resistenza ed esperienze che raccoglie contenuti crossmediali, podcast, interviste, saggi brevi e appunti di viaggio in forma audiovisiva, realizzati dalle socie di AWI insieme ad associazioni, organizzazioni e persone alleate. Abbiamo pensato a un diario di viaggio che tocchi diverse regioni della penisola, per restituire una fotografia del paese reale da nord a sud, tra centro e periferia, che mette in discussione narrazioni dominanti anacronistiche che vedono l’Italia come un luogo meraviglioso ma immobile.

[Alessandra Saviotti]: Baci da AWI è un toolkit aperto, assemblato collettivamente per orientarsi nel settore dell’arte contemporanea e immaginare altri modi di praticare il lavoro culturale e artistico. Fino alla fine del 2024 ospiteremo lavoratrici e attiviste per parlare del tema del lavoro artistico e culturale contemporaneo, in particolare analizzando gli strumenti che le lavoratrici e i lavoratori dell’arte possono usare per orientarsi nel settore.

[F.F.]: Siamo qui oggi con Simona Barbera, Beatrice Catanzaro e Alessandro Tartaglia per parlare del tema della formazione artistica in Italia, intesa come il percorso educativo e professionale nelle discipline delle arti visive e della cultura visuale. Benvenute e benvenuti, noi siamo Fabiola Fiocco e Alessandra Saviotti e modereremo la conversazione. Per cominciare vorremmo chiedervi di presentarvi brevemente entrando già un po’ nel vivo della puntata e spiegandoci secondo voi che cosa significa parlare di educazione artistica.

[Beatrice Catanzaro]: Sì, buongiorno, io sono Beatrice Catanzaro, sono artista e docente alla Naba, a Milano, dove insegno arti visive al biennio di arti visive e studi curatoriali. Insegno al bach internazionale. Oltre a questa posizione insegno anche a un nuovo triennio alla Fondazione Pistoletto, l’Accademia Unidee, dove attualmente sto insegnando anatomia artistica. In modo molto sintetico, i due cardini del mio lavoro pedagogico ed educativo sono incarnati uno in un approccio maieutico verso gli studenti, quindi cercare di tirare fuori quelle che sono le loro urgenze, piuttosto che vestirli delle urgenze altrui; e, al contempo, di accompagnarli nello sviluppo delle proprie capacità critico-riflessive, cosa di cui forse parleremo anche successivamente. Grazie.

[Alessandro Tartaglia]: Buongiorno a tutte e tutti. Io sono Alessandro Tartaglia, sono un designer, faccio parte di FF3300 che è una società di design e sono un socio della Scuola Open Source e sono stato il direttore didattico per tre anni della Scuola Open Source. Ho delle esperienze di insegnamento in diversi atenei italiani, Bari, Napoli, però sono state frequentazioni sporadiche. I principi che guidano il mio lavoro nella didattica e nella pedagogia sono la pedagogia hacker, cioè sostanzialmente indagare l’intersezione tra la vita delle persone e la tecnologia e come le persone possono usare criticamente la tecnologia per migliorare la propria vita. Questo chiaramente non investe solo il campo dell’arte ma, almeno nella mia esperienza, è più orientato al design… però immagino che sia compatibile come framework. Apprendimento in situazione, non linearità, linguaggio, scrittura, codice, nuove tecnologie, reti... queste cose qui insomma.

[Simona Barbera]: Buonasera a tutte, a tutti e a tuttu, mi chiamo Simona Barbera, sono un’artista visiva nel campo delle installazioni sonore e docente all’Accademia di Belle Arti di Genova nel campo degli studi sulla performance e nuove tecnologie dell’arte. Dal 2019 coordino la scuola di nuove tecnologie dell’arte all’Accademia di Genova e dal 2005 vivo tra la Norvegia e l’Italia. DIciamo che la mia parte rivolta all’insegnamento è fortemente influenzata dagli studi che ho fatto io stessa, da studentessa alla Oslo National Academy of the Arts. L’unica mia esperienza nel campo della docenza è relativa all’Accademia di Genova, alla quale ho dedicato tutti i miei anni di esperienza. In particolare mi sono concentrata, soprattutto ultimamente, nel cercare di riportare quelli che sono stati gli anni fondamentali della mia formazione artistica, in una zona – se vogliamo considerare appunto Genova, descrivendola in questi termini – leggermente periferica e quindi negli anni, soprattutto in questi ultimi anni, mi sono soffermata moltissimo sulla questione delle periferie, su una critica al sistema educativo, che spesso vede nelle grandi zone svilupparsi in centri, nelle metropoli o comunque in città molto grandi, ad esclusione ovviamente di percorsi che a volte vengono considerati leggermente più marginali. Quindi per me l’operazione che faccio su Genova ha un’importanza decisiva in questo mio percorso rivolto all’insegnamento, perché è centrato ed è sicuramente specifico nel suo contesto.

Il livello di preparazione

00:06:48

[A.S.]: Grazie mille per questo primo giro, poi ci sarà modo di conoscerci meglio durante questa puntata. Quindi vorrei introdurre la prima domanda dando un po’ di contesto per chi ci ascolta. Secondo l’indagine di settore pubblicata da Art Workers Italia nel 2021, l’86% delle lavoratrici e dei lavoratori intervistati ha detto di possedere un titolo specifico in ambito artistico tra accademia di belle arti o un titolo universitario. Le donne hanno più spesso anche titoli di studio più alti, come dottorato e master e, di questi, il 28% ha poi esperienze formative conseguite all’estero, prevalentemente per attività post-universitarie. Quindi una parte dell’attivismo dell’associazione si materializza però anche attraverso la realizzazione di laboratori e presentazioni in scuole, accademie, università. Abbiamo notato in questi anni di incontri un po’ in tutta Italia, sia in presenza che online, come venga segnalata molto spesso da parte degli studenti e delle studentesse una difficoltà rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro per la mancanza, talvolta, di una sorta di preparazione pratica, una preparazione che possa fare da introduzione o anche un po’ da cuscinetto tra l’ambito più accademico, l’ambito appunto scolastico e il mondo del lavoro. Ad esempio, c’è stato detto in questi anni come la gestione di un portfolio, per esempio, non viene molto affrontata oppure la ricerca dei finanziamenti per sviluppare progetti indipendenti, oppure anche la negoziazione del compenso banalmente. Per cui alla luce di questo la prima domanda che vorrei porvi che potrebbe essere intesa anche un po’ come una provocazione, ecco, è: che tipo di lavoratori e lavoratrici forma l’educazione artistica?

[S.B.]: Di nuovo, per quanto riguarda la mia esperienza specifica, resto nel luogo, quindi analizzo il territorio e quella che è un po’ la mia esperienza in una dimensione piccola, che non si può confrontare nemmeno con le capitali non solo appunto della cultura artistica e della cultura visuale, ma anche in generale tutto quello che ruota anche intorno a una sorta di economia. Per quanto riguarda una situazione piccola e ridotta come può essere quella dell’esperienza ligure e genovese, diciamo che ci sono molti punti da affrontare. Per esempio, anche semplicemente l’aspetto generazionale: moltissimi studenti, studentesse, studentu arrivano direttamente dal liceo e questo può essere sicuramente un primo punto da analizzare. Dal momento in cui – sempre riferendomi a una mia esperienza personale – probabilmente già il liceo presenta delle piccole problematiche sicuramente non risolvibili solamente in un primo anno di un triennio, per cui forse il percorso educativo dovrebbe essere un po’ più allargato, un po’ più esteso, per poter approfondire un’immersione totale in un ambiente così complicato e complesso, pur restando nel contesto periferico. Poi cosa dire... nelle accademie pubbliche il numero così elevato di presenze all’interno delle classi probabilmente offre un ambiente leggermente più generico, quindi meno approfondito, dove non è possibile, per esempio, applicare o creare una sorta di diffusione e unione tra la parte rivolta alla teoria e alla pratica.  Per esempio, semplicemente parlando di studi d’artista, approfondire questo tema e far sì che lo studio diventi l’estensione della classe o comunque che le classi non rimandino poi più così tanto all’atmosfera del liceo, ma che diventino un luogo di discussione, di dimensione critica che entra nel fulcro del discorso. E poi alla fine la preparazione in relazione anche ad un contesto più complesso e globalizzato, che poi deriva anche da una non conoscenza per esempio della lingua inglese. Già nei primi anni si nota un forte ostacolo proprio dovuto all’esperienza pregressa e chi arriva da varie formazioni precedenti, la lingua inglese è completamente inesistente. Di conseguenza anche il repertorio teorico o la dimensione critica che si può attivare in una dimensione molto allargata è estremamente ridotta. Poi i tre anni passano, il triennio finisce, il biennio è una piccola estensione e quindi si finisce il percorso sentendosi in un ambiente non idoneo forse, o impreparati, o comunque non adatti ad affrontare delle questioni un pochino più complicate.

[A.T.]: Allora, io volevo dire due cose. La mia esperienza di insegnamento è stata piuttosto variegata, ho avuto persone in uno stato di formazione più o meno avanzata, quindi diciamo verso la fine del proprio ciclo quinquennale di formazione, sia persone neofite, fresche di liceo, matricole. Quello che ho potuto notare è che la maggior parte delle persone che arrivano all’università non hanno chiare una serie di cose della società in cui si vanno a inserire, tipo non sanno cos’è lo stato sociale: non il gruppo musicale, intendo proprio i dispositivi di welfare per persone, cittadine e cittadini; non sanno che significa essere un cittadino, una cittadina, un cittadinu fino in fondo, non sanno quali sono i propri diritti, i doveri, non conoscono le leggi che regolano il sistema entro cui operano. Quindi, queste cose qui, risultano molto difficili per una persona che deve già imparare tutte le cose che gli interessano... se non le ha già, è problematico poi l’inserimento nel mondo del lavoro, perché il mondo del lavoro, come sappiamo, è ostile, non è come l’università che invece è un ambiente più o meno protetto. Questo era il primo ordine di questioni che volevo porre. Il secondo ordine di questione è che il disegno del percorso dell’iter formativo italiano è deterministico, cioè si insegna a pensare in un modo deterministico: gli argomenti sono presentati in un certo modo e molto spesso c’è una ridondanza di argomenti che vengono rifatti in modo più o meno uguale a livelli diversi del ciclo formativo, tralasciando tuttavia quello che magari invece è al di là di quegli argomenti. Un esempio su tutti, lo faccio sempre, l’impero romano: nel senso noi facciamo l’impero romano in ogni ordine di formazione della scuola pubblica, dopodiché quando Traiano passa sotto l’arco di trionfo non abbiamo idea di cosa succede in Cina o in Sud America. Quindi una formazione che abbia un approccio più “indeterministico”, più aperto, più trasversale, che contempli gli studi comparati, mi sembra che potrebbe preparare le persone meglio a quello che dovrebbero fare nel percorso universitario, cioè andare verticalmente su quelli che sono i loro interessi, cercando di arrivare quanto più in fondo possibile alla comprensione e al dominio della materia e delle discipline collegate.

Le sfide per un curriculum diverso

00:15:33

[F.F.]: Grazie mille già per queste risposte che mettono a fuoco delle questioni chiave. Rimanendo sul tema del programma formativo, in questa conversazione abbiamo cercato di includere diversi esempi di scuole specializzate nella formazione, nelle discipline delle arti visive e della cultura visuale, per cui vorrei approfondire la questione della scrittura del curriculum. Che cosa comprende e che cosa no, e che cosa bisognerebbe cambiare e che direzione potrebbe prendere da qui ai prossimi dieci anni.

[B.C]: Io mi aggancerei all’ultimo intervento di Alessandro perché già ha tracciato forse una delle criticità o una delle criticità più profonde, ovvero da un lato il sistema dell’arte contemporanea desidera vuole o proietta sugli artisti oggi grandi capacità di navigare non solo il campo dell’arte, ma l’immaginario sociale e le criticità che il contemporaneo sta palesando. Dall’altra non ci sono gli strumenti. Io insegno in accademie che hanno numeri molto piccoli, che hanno classi ridotte. Tuttavia, mi rendo conto che la maggior parte degli studenti – e sono anche di fascia di età tendenzialmente più alta – hanno magari letto l’ultimo testo di Donna Haraway, quindi sono sul pezzo di certe posture teoriche, ma non hanno idea di quello che lo sottende. E spesso sono teorie che accadono altrove e le teorie hanno una contestualizzazione, non sono tutte interscambiabili, ma vengono acquisite perché sono il trend del momento. Per cui indubbiamente riuscire ad avere degli strumenti di lettura. Oggi è impensabile navigare il mondo senza avere un’infarinatura di geopolitica banalmente, o di economia. Un altro aspetto secondo me di grande criticità rispetto a queste teorie che sono date un po’ come pacchetti pronti a cui poi i ragazzi si sentono quasi obbligati ad aderire; e quindi fare un lavoro quasi rappresentativo di posture teoriche che non comprendono, è quello che c’è poca attenzione a come la pratica artistica – che è una pratica che dialoga con le teorie ma non va a rappresentare una teoria – produce lo stesso un pensiero. Quindi questa modalità molto italiana di una netta separazione tra traiettoria teorica e pratica con un inevitabile dislivello, nel senso che la pratica è sempre un po’ ridotta al classismo, invece non vengono dati strumenti di elaborazione e questo penso che sia una delle criticità. Sicuramente è opportuno che la formazione delle accademie si amplifichi e non rimangano i detriti ottocenteschi dell’AFAM (Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica), che sono abbastanza restrittivi.

[F.F.]: Grazie Beatrice. Non so se Simona o Alessandro volete aggiungere qualcosa, però intanto forse vorrei espandere, partendo da quello che ha detto Beatrice, e aggiungere non solo quale direzione potrebbe prendere un diverso curriculum, ma anche quali sono proprio le sfide della formazione artistica in Italia e unire un po’ queste due idee e processi analitici.

[A.T.]: Su questo volevo dire solo... una volta faccemmo un esperimento in un laboratorio della scuola open source in cui immaginammo una sorta di segno, un'impronta, che veniva fuori dall’analisi dell’individuo. Mi viene da dire che i curriculum, per come sono strutturati, sono abbastanza sterili e hanno una capacità di significazione molto bassa. Probabilmente immaginare dei dispositivi diversi per spiegare le specificità delle persone potrebbe essere interessante, proprio come sfida progettuale.

[S.B.]: Un’altra sfida possibile potrebbe essere anche quella di modificare o fare un ragionamento sul luogo, sul sito. Per esempio, le prime situazioni che io considero situazioni leggermente di disagio le ho riscontrate, per esempio, nell’impostazione di alcune classi, dove ancora anche nelle accademie si ritrovano degli ambienti dove ci sono delle aule che un po’ ricordano la struttura e la griglia dei licei. Invece, per esempio se penso al modo in cui ho studiato io, fuori dall’Italia, ricordo degli ambienti sicuramente un pochino più accoglienti, una situazione circolare. E quindi favorire in qualche modo un modo di stare insieme sviluppando anche una sorta di rete di conoscenza, di contatto anche tra una persona e l’altra, un pochino più leggero nella sua struttura, ecco, meno rigido e meno sicuramente impostato in questa situazione frontale. Questa è una prima dimensione secondo me importante. E perpetuare questa cosa, farlo come una sorta di abitudine allo stare insieme e quindi sviluppare una modalità di interdialogo un pochino più circolare. Poi di nuovo probabilmente – ed è una cosa che ho notato negli anni, cercando di apportare o comunque di influenzare anche la scelta di alcune materie – sviluppare un approccio più seminariale e meno un rapporto impostato su una lezione che deve avere questo enorme sviluppo per seguire un programma ministeriale. Invece ritengo che forse i seminari, o comunque dei workshop aperti, eliminando probabilmente la tensione degli esami – che devo dire onestamente io toglierei da qualsiasi curriculum di qualsiasi tipo – forse potrebbe favorire di nuovo una maggiore confidenza anche o comunque relazione nel tipo di approccio tra un insegnamento e poi la restituzione all’interno di una classe.

La preparazione dei docenti in un contesto in mutamento

00:23:37

[A.S.]: Grazie mille anche per queste riflessioni sulla composizione del curriculum. Sicuramente immagino che non sia facile pensare a... ora mi viene da dire sovvertire i protocolli, senza crearne di nuovi. Per cui diciamo che, almeno secondo la mia esperienza, la formazione artistica o comunque la formazione delle discipline dedicate alla cultura visuale è molto inafferrabile, nel senso che si basa anche su quelle teorie che magari noi mettiamo in pratica, ad esempio nella nostra pratica artistica e curatoriale. E quindi, ad esempio, se penso al mio caso, io ho avuto varie esperienze di insegnamento, soprattutto all’estero, c’è sempre questa volontà di applicare – appunto, come diceva prima Beatrice – le teorie in pratica, ma all’interno del discorso universitario o delle accademie, poi ci si scontra con questi protocolli o queste strutture e – come diceva sia Simona che Alessandro – ci sono queste strutture, soprattutto nel nostro paese, che derivano da un certo tipo di impostazione e sono proprie del passato. Per cui passerei la parola a Beatrice che magari vuole aggiungere qualcosa su questo.

[B.C.]: Sì, brevissimamente. Io penso che ci sia anche un problema di formazione dei docenti, ovvero la frontalità universitaria non è, secondo me, possibile nelle accademie. A patto che nell’accademia è necessario creare un altro spazio dialogico, per tutti i motivi che sono già in qualche modo stati detti. Ma i docenti stessi hanno difficoltà, spesso, ed è una questione, mi verrebbe da dire, anche di metodo. Cioè come si insegna senza imporre la propria visione o la propria pratica. Io ricordo quando studiavo a Brera, studiavo pittura con un docente di cui non farò il nome. L’aula era costellata di quadri gialli quando c’era il mese del giallo e poi si passava a rosso e poi si passava... Lo ricordo con ironia, ma ahimè la situazione era quella, era un mimicarsi, un mimicare le modalità, perché al docente stesso non interessava tirare fuori o aiutare gli studenti a far emergere le loro istanze, le loro modalità. E questo non c’entra nulla con l’essere un bravo artista o meno, perché c’è anche un po’ questo equivoco, nelle accademie se sei un artista che ha una certa posizione, diventi un blasone, ma può anche essere che tu sia un pessimo insegnante.

[A.S.]: Grazie mille per questa riflessione che secondo me ci potrebbe portare alla questione successiva che vorrei toccare insieme a tutte e tutti voi. Nonostante si parli spesso di valorizzazione della cultura in Italia, gli investimenti nell’arte contemporanea sono ancora scarsi. In particolare, riguardo alla formazione si è osservata una crescente tendenza anche alla finanziarizzazione dell’educazione artistica in Italia – ma non solamente in Italia, direi che è una tendenza abbastanza europea – che ha visto anche l’aumento di istituzioni private e una revisione delle priorità delle accademie e delle università pubbliche che tendono ad orientarsi verso logiche più di mercato a scapito, talvolta, dell’inclusività della formazione. Rispetto a questa ultima parte abbiamo notato anche un processo di internazionalizzazione che di base non è sbagliato, chiaramente, perché denota apertura e anche un certo grado di contaminazione verso altre esperienze, ma può causare certe difficoltà se non si è pronte e pronti ad accogliere queste diverse esperienze. Un po’ quello che diceva appunto Beatrice poco fa. In particolare mi riferisco alla preparazione dei docenti e dello staff in generale, nella gestione delle differenze culturali e geopolitiche, soprattutto per quanto riguarda gli studenti internazionali. Per cui vorrei chiedere se avete qualche riflessione su come si può affrontare ad esempio questo cambiamento.

[B.C.]: Sì, io mi inserisco portando un po’ avanti il ragionamento fatto precedentemente. Io insegno in due accademie che sono molto preparate da un punto di vista diciamo strutturale ad accogliere persone, studenti che arrivano da ogni dove, quindi una capacità di gestire tutto questo indotto di persone che arrivano con necessità di visti e procedure diverse. Quello che però ho notato, forse anche per una questione squisitamente biografica: io ho avuto la fortuna di vivere e lavorare in posti molto lontani e quindi ho fatto esperienze sul campo di tante cose anche di non dare per scontato la libertà di parola in certi luoghi, di non dare per scontato la libertà di costume e quindi un po’ di queste esperienze ne ho fatto tesoro, come mio toolkit personale per affrontare delle classi che sono veramente variegate. Mi sono però resa conto, in interlocuzione con gli studenti, che non è così con tutto il corpo docente. E c’è una grande criticità, oggi forse più del passato, ovvero che arrivano studenti da luoghi che sono magari molto instabili, da luoghi dove ci sono delle criticità politiche che mettono veramente in serio pericolo anche gli studenti. Studenti che sono anche rifugiati, insomma tutta una serie di problematiche che, all’interno di una classe, in qualche modo, queste condizioni diverse – non mi piace la parola fragilità – devono essere riconosciute. Faccio un esempio personale di un accadimento che si è svolto in una delle università in cui insegno dove avevo una studentessa tibetana all’interno di una classe con un numero abbastanza importante di studenti cinesi, dove ho notato che la studentessa non prendeva mai parola perché aveva paura di parlare. Questa cosa non è stata colta – o meglio non è stata letta – dai miei colleghi, e qui non colpevolizzo nessuno, ma semplicemente io sono più attenta in certe situazioni. E questo, però, mi ha fatto riflettere molto su quanto mettiamo in sicurezza l’alterità, quanto riusciamo a capire come gestire queste classi che possono portare delle conflittualità politiche che non c'entrano nulla con quello che stiamo insegnando, ma che in qualche modo dobbiamo essere abili a contenere. Quindi penso che i docenti abbiano bisogno di essere alfabetizzati, anche su questo.

[F.F.]: Grazie Beatrice, soprattutto per quest’idea del mettere in sicurezza l’alterità che è molto bella, e forse parlerei non solo verso i docenti, ma anche tutto il personale che si occupa di supportare e di aiutare le studentesse e gli studenti anche per quanto riguarda questioni più logistiche e burocratiche, che non sono sempre molto discusse o non sono necessariamente un oggetto di riflessione all’interno delle università. Quindi c’è questa forte tendenza all’attrazione e a commercializzare un determinato programma, ma poi non ci sono delle strutture che possono accogliere e facilitare anche la mobilità delle studenti e degli studenti.

Cartoline

00:32:52

[F.F.]: Noi siamo arrivate alla fine di questa puntata. Mi dispiace un po’ rompere questa serietà con un’ultima domanda che sembra più leggera ma forse no. Dato che il programma si chiama Baci da AWI, vorremmo concludere chiedendovi a chi vorreste inviare una cartolina, da dove e perchè.

[B.C.]: Visto che è il mio compleanno comincio io. Io mi manderei una bella cartolina di auguri. No... manderei una cartolina di auguri alla mia sorella d’anima, Fatima, che vive a Nablus in Palestina.

[S.B.]: Io sono un po’ spiazzata. Non so sicuramente spedirei la cartolina da Genova e vorrei che poi... anzi spedirei più cartoline, immaginandomi appunto una risposta e quindi una.... è un pensiero molto astratto... ospitando probabilmente all’interno della città di Genova altre persone, cercando appunto di immaginare una città un po’ più aperta. Diciamo che non è una persona fisica. Ma sono tante persone che ricevono una cartolina e poi vengono a trovarmi.

[A.T.]: Io voglio lanciare un messaggio in una bottiglia in direzione universo aperto. Il messaggio è: c’è vita ma non confidate troppo nella vita.

[A.S.]: Ok, siamo arrivati alla conclusione di questa sesta puntata dedicata alla formazione e all’educazione per le discipline delle arti visive in Italia. Vorrei ringraziare le nostre ospiti e i nostri ospiti, speriamo di aver dato qualche spunto di riflessione. E nella descrizione del podcast trovate i link a cui abbiamo fatto riferimento durante la conversazione e vi ricordiamo che per dimostrare il vostro supporto ad Art Workers Italia potete associarvi e per farlo trovate tutte le info sul sito www.artworkersitalia.it. A presto e Baci da AWI!

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Simona Barbera, Beatrice Catanzaro, Alessandro Tartaglia, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti

Simona Barbera è artista visiva nel campo delle installazioni sonore, vive tra l’Italia e la Norvegia ed è docente all’Accademia di Genova. Beatrice Catanzaro (PhD) è artista, ricercatrice e docente di arti visive presso l’accademia NABA di Milano e l’accademia UNIDEE di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto. Alessandro Tartaglia è designer presso FF3300 e responsabile della didattica per La Scuola Open Source.

Nota