capsule digitale

Che tipo di lavoratorǝ forma l’educazione artistica? Parte seconda

Silvia Bottiroli, Cesare Pietroiusti, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti

Partendo dall’indagine di settore svolta da AWI nel 2021 che evidenzia come lɜ lavoratorɜ dell’arte contemporanea possiedano una elevata professionalità, emergono diverse criticità legate alla preparazione pratica per l’ingresso nel mondo del lavoro, come la gestione del portfolio e la ricerca di finanziamenti, così come l’inadeguatezza e arretratezza di strutture e programmi e l’impatto della crescente finanziarizzazione e internazionalizzazione dell’educazione artistica, con implicazioni per inclusività e multiculturalità. Un dialogo su opportunità, limiti e proposte per il futuro della formazione artistica e della cultura visuale in Italia.

Presentazioni

00:00:00

[Fabiola Fiocco]: Ciao a tutte e a tutti e benvenute alla sesta puntata del podcast Baci da AWI, la capsule digitale del Giornale dell’Arte realizzata da Art Workers Italia. Trovate l’indirizzo al sito nella descrizione del podcast. Baci da AWI racconta come le lavoratrici dell’arte e della cultura si muovono nell’attuale scenario economico e politico italiano. È un contenitore di pratiche di resistenza ed esperienze che raccoglie contenuti cross-mediali, podcast, interviste, saggi brevi e appunti di viaggio in forma audiovisiva, realizzati dalle socie di AWI insieme ad associazioni, organizzazioni e persone alleate. Abbiamo pensato un diario di viaggio che tocchi diverse regioni della penisola, per restituire una fotografia del paese reale da nord a sud, tra centro e periferia, che mette in discussione le narrazioni dominanti anacronistiche che vedono l’Italia come un luogo meraviglioso ma immobile.

[Alessandra Saviotti]: Baci da AWI è un toolkit aperto, assemblato collettivamente per orientarsi nel settore dell’arte contemporanea e immaginare altri modi di praticare il lavoro culturale e artistico. Fino alla fine del 2024 ospiteremo lavoratrici, lavoratori, attiviste e attivisti per parlare del tema del lavoro artistico e culturale contemporaneo, in particolare analizzando gli strumenti che le lavoratrici e i lavoratori dell’arte possono usare per orientarsi nel settore.

[F.F.]: Siamo qui oggi per tornare nuovamente sul tema della formazione artistica in Italia, intesa come il percorso educativo e professionale nelle discipline delle arti visive, performative e della cultura visuale. Nella precedente puntata abbiamo infatti avuto l’opportunità di trattare l’argomento insieme a Simona Barbera, Beatrice Catanzaro e Alessandro Tartaglia. Data la complessità e importanza del tema abbiamo pensato fosse necessario continuare questa riflessione, coinvolgendo ulteriori esperienze, professionisti e professioniste. Siamo qui oggi, quindi, con Silvia Bottiroli e Cesare Pietroiusti, benvenuti e benvenute. Noi siamo Fabiola Fiocco e Alessandra Saviotti e modereremo la conversazione. Per cominciare vorremmo chiedervi di presentarvi brevemente entrando un po’ già nel vivo della puntata e quindi spiegandoci secondo voi che cosa significa parlare di educazione artistica oggi in Italia.

[Silvia Bottiroli]: Buonasera a tutte e tutti, sono Silvia Bottiroli, sono una curatrice che lavoro molto tra curatela delle arti performative, dimensione di ricerca e dimensione pedagogica, in Italia e all’estero. Il mio taglio, la prospettiva che posso portare alla conversazione di oggi, forse, sta proprio all’incrocio tra queste pratiche. Quindi con un focus sulla dimensione del performativo… delle arti performative, quindi teatro, danza, performance e le forme – come dire – che le attraversano, ma anche con un’attenzione alla formazione in relazione alla ricerca artistica. Le mie esperienze dentro l’educazione nel panorama italiano sono legate da un lato a un insegnamento che tengo da molti anni all’Università Bocconi di Milano, quindi in un corso di laurea triennale CLEAM che forma manager della cultura, dell’arte e della comunicazione. E sono stata in maniera più sporadica all’interno di altri progetti, dove ho anche incontrato e sono stata invitata da Cesare Pietroiusti a lavorare, in particolare, all’interno di due master che ha diretto. La mia esperienza più di visione e in qualche modo di programmazione rispetto all’educazione, anche della formazione dell’alta formazione artistica, invece, è stata soprattutto in Olanda alla direzione di DAS Theater ad Amsterdam. Un master pensato per artisti e artiste internazionali, quindi una di quelle formazioni che non si preoccupa tanto – qui forse metto una prima questione – di costruire o trasmettere delle skills, delle competenze tecniche specifiche, quanto piuttosto di accompagnare artisti e artiste, in qualche modo lavoratori e lavoratrici culturali, anche curatori e curatrici in quel caso, nel navigare una serie di competenze complesse, ma anche di desideri e di formati complessi che possono riguardare la loro pratica.

[Cesare Pietroiusti]: Io sono Cesare Pietroiusti. Intanto grazie per l’invito, mi fa molto piacere intervenire su questo tema che per me è un tema cruciale. Io sono un artista, ma non mi sono mai identificato con una specifica disciplina, cultura: o anche videoarte o anche arte performativa in senso stretto. E quindi sono sempre stato piuttosto interessato alle situazioni interdisciplinari o di intermedialità fra diversi linguaggi, diversi approcci alla ricerca artistica, da una parte. Dall’altra, nella mia vita, per poter non fare il medico (essendo laureato in medicina, ma non volevo fare il medico) ho trovato questo escamotage. quando avevo meno di 30 anni, di cominciare a insegnare a scuola. E quindi da quando ho 29 anni ho praticamente sempre insegnato, prima nelle scuole medie e superiori, poi all’università. Dal 2004 insegno, anche se non tutti gli anni – ma insomma con una certa regolarità – nel corso di arti visive dello IUAV a Venezia ed è un’esperienza bellissima. Spero che ne possiamo parlare poi più approfonditamente nel corso di questo dialogo. Negli ultimi 3-4 anni ho anche insegnato nella nuova sede della NABA a Roma. Come Silvia faceva riferimento, in effetti ho diretto per due edizioni un master in arti performative nel periodo fra il 2019 e il 2022, periodo molto complicato per vari motivi, ma in cui sono stato presidente dell'Azienda Speciale Palaexpo di Roma. In quanto presidente di questa azienda ho promosso due edizioni di questo master, il cui merito principalmente non va a me che l’ho soltanto fatto partire come idea, ma va soprattutto a Ilaria Mancia che lo ha curato e seguito passo passo. Sicuramente quest’ultima esperienza in particolare ha rappresentato per me un punto importantissimo di sperimentazione su due punti. Uno è appunto l'integrazione, l’incontro fra le diverse discipline artistiche che in qualche modo afferiscono alla performatività in senso lato, che significa il coinvolgimento del soggetto in senso diretto e non in senso rappresentativo, in senso di realtà e non di rappresentazione, che sono ovviamente le diverse arti performative, insieme all’arte visiva che invade il campo dell’arte performativa. Ma dall’altra, forse ancora più specifico, l’integrazione tra la formazione, e quindi l’aspetto pedagogico – a cui faceva riferimento ovviamente anche Silvia – e la produzione. Da sempre sono stato interessato alle situazioni di residenza in quanto credo – e ne ho anche organizzate negli anni, nei decenni, ormai varie e in diversi formati, più o meno informali – ritengo che il periodo in cui artisti e curatori appassionati vivono insieme, anche per pochi giorni, sono periodi in cui si può sperimentare una modalità di autoformazione che bypassa, per molti versi, proprio come modalità di sperimentazione, la formazione più tradizionale. Quindi due livelli di integrazione, ripeto, quello fra le diverse tecniche e linguaggi delle arti performative da una parte e quello fra formazione e produzione. E quest’ultima integrazione, in particolare nell’esperienza al Mattatoio, per noi ha rappresentato anche la possibilità di sperimentare diversi formati di presentazione del lavoro performativo al pubblico, sotto forma di prove aperte, laboratori, casting anche, aperti al pubblico, eccetera. Quindi modi di presentare il lavoro artistico anche nel suo farsi e non soltanto come prodotto finito.

Opportunità e limiti di un approccio critico nella ricerca artistica

00:09:26

[A.S.]: Grazie mille per questo primo giro di risposte e ci terrei a sottolineare che io sono stata, appunto, una studentessa di Cesare e ho collaborato con Silvia nel suo periodo ad Amsterdam, quindi è interessante anche per me ripensare alle vostre parole e anche alle esperienze, insomma, che abbiamo vissuto insieme… se così posso dire. Per cui partirei invece da una prima domanda e poi sono sicura che nel corso della puntata ritorneremo su alcuni aspetti che già avete accennato. Come discusso anche nella precedente puntata dedicata all’educazione e alla formazione, dall’indagine di settore che Art Workers Italia ha condotto e pubblicato nel 2021, l’86% delle lavoratrici e dei lavoratori intervistati ha detto di possedere un titolo specifico in ambito artistico. Di questi, il 28% ha esperienze formative all’estero prevalentemente in attività post-universitarie e, in più, dal sondaggio è emerso che la formazione rappresenta un ambito d’azione particolarmente importante anche per la stessa associazione, perché negli anni Art Workers Italia si è impegnata molto anche nella realizzazione di laboratori e talk nelle scuole, nelle accademie e università. Questo anche per recuperare un po’ quello che diceva Cesare rispetto all’autoformazione, perché appunto Art Workers Italia è un’associazione soprattutto condotta da persone che si impegnano come volontarie però, ovviamente, facciamo tutti parte di questo settore delle arti contemporanee. L’esperienza laboratoriale ci ha permesso di notare come studenti e studentesse molto spesso esprimono una sorta di difficoltà rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro, ad esempio per la mancanza di preparazione pratica, come ad esempio la gestione di un portfolio, oppure la ricerca di finanziamenti o la negoziazione di un compenso, che è ancora un ostacolo molto presente per chi si approccia nel nostro mondo per la prima volta. Quindi, alla luce di questo, la prima domanda che vorrei farvi, che potrebbe essere anche intesa come una sorta di provocazione è: che tipo di lavoratori e lavoratrici forma l’educazione artistica?

[S.B.]: Provo a iniziare ad articolare una prima risposta io, poi procediamo magari in modo dialogico. No, in realtà non so rispondere a questa domanda e sento di non avere una panoramica che è in grado di dare una risposta. Posso provare a iniziare a mettere qualche spunto per la mia esperienza, che appunto è un’esperienza anche molto parziale, in qualche modo all’interno di segmenti molto specifici della formazione, anche di segmenti molto pensati, devo dire. Cercando magari di fare qualche riflessione che da un lato ha degli aspetti anche un po’ affermativi e propositivi rispetto ad alcune questioni che mi sembrano interessanti: ad alcune parti di formazione che mi sembrano degli accenti importanti e ad alcune criticità. Rispetto appunto alle esperienze mie e dei programmi che ho potuto attraversare in maniera meno continuativa, anche altri rispetto a quelli che ho nominato prima, da IUAV a Venezia sulle arti performative, ad altri contesti universitari di pratiche artistiche o curatele, ad esempio a Salisburgo e Valencia, insomma altri contesti, soprattutto nell’alta formazione, quindi sto parlando di programmi che sono master, post-universitari prevalentemente, mi sembra che siano programmi che formano lavoratori e lavoratrici molto critici e molto critiche. Questo aspetto è senz’altro molto presente nel contesto anche di DAS in Olanda, ma devo dire che l’ho attraversato anche nei contesti che ho potuto attraversare in Italia e lo sottolineo come un aspetto molto positivo naturalmente. Poi sapendo che la consapevolezza critica, che intendo rispetto sia a una critica anche istituzionale delle istituzioni che offrono formazione, sia una capacità critica di lettura in qualche modo del proprio posto nel mondo, anche proprio come lavoratori e lavoratrici dell’arte. Quindi come lavoratori e lavoratrici di un’economia dell’immateriale e dell’esperienza che sta abbastanza al centro della dimensione economica tardocapitalista, con tutte le problematiche che questo porta nella dimensione del progetto eccetera. Senz’altro è una risorsa che a volte diventa talmente presente da diventare anche una forma di paralisi o di grande fatica nel poi dare forma a un percorso proprio di lavoro, di ricerca, di produzione, di costruzione anche di una sostenibilità personale e sociale del lavoro che si fa. La dimensione critica mi sembra interessante anche rispetto a una capacità di lettura del reale, del contemporaneo, anche nella dimensione politica, economica, sociale, che trovo molto accesa, soprattutto in questi ultimi anni, in generazioni di studentesse e studenti che ho incontrato, che mi sembrano abbiano delle domande molto vibranti, molto potenti rispetto all’oggi. Mi sembra di aver incontrato situazioni di formazione in cui c’è anche una preparazione, o comunque viene costruita insieme a chi studia, anche una preparazione a una varietà di pratiche e di forme che può prendere il lavoro artistico. Vorrei girare attorno e non usare la parola flessibilità, che ha tante connotazioni anche negative, ma ha un’immaginazione abbastanza aperta, mi sembra, rispetto a che cosa faccia o cosa possa fare oggi un artista o un lavoratore o lavoratrice nel campo artistico e culturale, al di là della produzione di opere. Forse dal punto di vista critico – ma è una questione su cui sono curiosa di sentire anche Cesare – non abbastanza una capacità di maneggiare e in qualche modo governare e orientare tutte le attività complesse che invece riguardano la creazione di un’opera, la sua produzione. Quindi forse con un’attenzione anche a tutta una serie di dimensioni di apertura della ricerca o di un linguaggio che ho molto incontrato che è più della ricerca artistica, dell’artistic research come campo disciplinare quasi, che non della produzione. A me un po’ solleva una domanda rispetto invece alla dimensione centrale della produzione o della creazione, nella forma che questa può prendere, quindi non necessariamente disciplinare, non necessariamente di un’opera che sappiamo già riconoscere come tale, però diciamo di un incanalamento rispetto a una dimensione di creazione che vuol dire anche di incontro: di superficie di incontro tra la pratica, l’opera e il mondo, in qualche modo più frontale o comunque più dominante. Forse metterei intanto queste due questioni, curiosa di andare avanti nel dialogo.

[C.P.]: Sì, Silvia hai già toccato vari temi, vediamo se riesco a connettermi. Il primo è sull’approccio critico. Allora, io appartengo a una generazione di artisti che ha visto per un buon decennio, se non di più – in particolare mi riferisco agli anni ’80 ai primi anni ’90 – una situazione in cui l’artista, almeno nel campo dell’arte visiva – ma non credo che altrove fosse poi così diverso – non doveva essere un intellettuale, cioè non era abbastanza smaliziato se si presentava con un approccio troppo intellettuale e troppo critico. Adesso non vorrei attribuire troppa importanza a una situazione nella quale io sono stato dentro fin dall’inizio, cioè il corso di arti visive dello IUAV a Venezia, però sta di fatto che dai primi anni 2000, io che ho visto, per esempio alla fondazione Ratti o in altre situazioni, anno dopo anno, moltissime centinaia di portfolio di artisti – non solo italiani, ma insomma adesso stiamo parlando degli italiani – ho visto nei primi anni 2000 una trasformazione radicale. Cioè ho visto comparire – e devo dire la maggior parte in effetti era gente che veniva da Venezia, dallo IUAV – nei portfolio, nei curricula, riferimenti naturalmente a ricerche filosofiche, a teorie critiche, alla psicanalisi, che prima erano assolutamente improbabili. Adesso… è un po’ un aneddoto, ma per esempio Boetti che io ho conosciuto qualche anno prima che morisse, nonostante fosse un artista coltissimo, una persona coltissima, prendeva in giro me perché mi presentavo un po’ come un artista intellettuale, che facevo troppe citazioni secondo lui. E in quegli anni, appunto parlo degli anni ’80 e primi ’90, non era opportuno per un artista avere questo approccio, come se diminuisse l’ispirazione e quindi l’impatto creativo della proposta artistica. Questo è molto cambiato dai primi anni 2000 in poi, e secondo me è bene, ovviamente, pur io essendo abbastanza scettico e spesso critico, nel senso di un’osservazione un po’ preoccupata, a volte, di eccessi di furori ideologici, che non credo facciano bene alla ricerca artistica. Però ritengo che questa svolta di attenzione alla teoria critica, alle teorie critiche, sia una svolta sicuramente positiva. E in Italia è abbastanza recente. Questo è il primo punto. Il secondo punto è quello che Silvia, giustamente, così un po’ criticamente, ha chiamato flessibilità. Allora, forse flessibilità in effetti è una brutta parola, però io credo... anche lì, certo, io appartengo a una generazione alla quale è stato insegnato che la scuola doveva servire non tanto a dare delle specifiche indicazioni tecniche o pratiche, quanto a formare da un punto di vista di attitudine, di apertura mentale, di capacità di creare collegamenti, di vedere le cose da una più ampia prospettiva possibile. E quindi io sono abbastanza convinto che la formazione artistica, almeno fino al quinquennio universitario, debba andare principalmente in questa direzione qui. Non tanto nel perfezionamento di capacità tecniche, quanto nell’apertura il più possibile delle potenzialità, nel far comprendere che le potenzialità che abbiamo sono molto maggiori di quelle di cui ci serviamo, e più ci chiudiamo in una tecnica e più le tagliamo. Ci sarà tempo, ovviamente, dopo i 25, dopo i 26 anni, di specificare, di perfezionare tecniche e discipline, ma io credo che la formazione debba soprattutto creare condizioni di apertura mentale e di consapevolezza delle proprie potenzialità, della propria potenza di agire – per usare un termine spinoziano, che mi è molto caro ovviamente come termine. Quindi non lo so se posso, non posso, non sono in grado, di rispondere alla domanda su quali tipi di lavoratori e lavoratrici produce la formazione artistica o dovrebbe produrre. Io credo che rispetto ad altre modalità di formazione, rispetto ad altri corsi di formazione, la formazione artistica apre alla possibilità, almeno in parte – a volte in larga parte – di inventare il proprio lavoro. Non tanto di adeguarsi a lavori già esistenti, a caselle da riempire, quanto di riuscire a creare con quelle potenzialità che vanno scoperte, sviluppate, incoraggiate. Grazie a quelle potenzialità, creare delle nuove modalità di lavoro. Quindi sono dei lavoratori che inventano il proprio lavoro. E questo è un grande... certamente da un punto di vista di garanzia sociale, è un rischio, ed è anche una condizione un po’ mobile, un po’ traballante, ma dall’altra è anche un lusso da un punto di vista della libertà di pensiero che nessun’altra – neanche la fisica quantistica secondo me – offre a nessun altro campo di studi e di ricerca. Una cosa che vorrei aggiungere che è determinante per quanto riguarda la formazione artistica – e in questo mi rendo conto di affrontare un problema piuttosto grosso – è determinante il fatto che nelle istituzioni di educazione artistica, soprattutto quelle di eccellenza ce ne devono essere per forza, cioè appunto lo IUAV lo è stato – almeno per un periodo, in parte lo è ancora – lo IUAV Arti Visive, adesso da qualche anno ha anche ovviamente il corso in Arti Performative che dirige Annalisa Sacchi, ha quello stesso piglio innovativo, critico, sperimentale, che aveva 20-10 anni fa, forse, il corso di arti visive. È cruciale il fatto che i docenti siano, almeno in buona parte, persone che lavorano sul campo, quindi non accademici, non solo persone inquadrate da un punto di vista di ruoli all’interno dell’università o dell’accademia, ma siano persone che hanno un percorso attivo di mostre, di lavoro performativo, di lavoro curatoriale e che appunto l’università accoglie, prende dai rispettivi campi di lavoro in modo che possano portare queste esperienze anche ai giovani, agli studenti, alle studentesse. Questo secondo me è cruciale e da questo punto di vista purtroppo l’accademia... e questo è uno dei punti più oscuri del panorama italiano, perché le Accademie di Belle Arti in Italia sono caratterizzate invece da una pletora di docenti abbarbicati alle loro posizioni e completamente fuori dal circuito di produzione, di sperimentazione e di ricerca. E questo è un male per gli studenti perché veramente non offre nessuna possibilità di sviluppo delle potenzialità di cui dicevo prima, ma non offre nemmeno, su un piano più banale, se vogliamo, più generico – non offre nemmeno un entusiasmo. Perché io credo che una persona di 50-60 anni debba offrire a un 25enne soprattutto una prospettiva di visione positiva, cioè il desiderio di fare quel lavoro lì. Quello che dico ogni volta ai miei studenti e studentesse, è: “Vi assicuro che questo è un lavoro stupendo, bellissimo, certo che ha le sue difficoltà”.

Curriculum accademico e dimensione laboratoriale

00:26:40

[F.F.]: Nella preparazione di queste puntate abbiamo ardentemente voluto includere diversi esempi di scuole specializzate nella formazione riguardo le discipline delle arti visive, performative e della cultura visuale proprio perché in Italia, in questo momento, ci troviamo in una terra di mezzo tra modelli più antichi e modelli che invece cercano di spingere verso diverse forme di apprendimento e appunto di formazione. In questo contesto la scrittura del curriculum assume un ruolo fondamentale, sia per definire la natura ma anche l’identità dei diversi modelli pedagogici. Quindi indirizzerei un po’ la conversazione chiedendovi di approfondire meglio la questione del curriculum. Che cosa comprende e che cosa no? Che cosa bisognerebbe cambiare e che direzione potrebbe prendere da qui ai prossimi dieci anni.

[S.B.]: Io proverei a iniziare a rispondere per riprendere la questione su cui ha chiuso Cesare nella risposta alla domanda precedente, che mi sembra molto importante e che forse si può rilanciare in termini di curriculum... appunto la questione dell’entusiasmo e del desiderio, come diceva molto bene, ma anche la questione che toccavi poco prima, Cesare, parlando anche delle diversità di pratiche, di forme, di modi di lavoro che sono e devono essere possibili e che mi faceva pensare, ascoltandoti, alla questione centrale della dimensione del tutoraggio, del mentoring, oltre che una dimensione più di trasmissione di conoscenze. E questa mi sembra una questione cruciale anche venendo appunto al tema del curriculum, cioè di che cosa è fatta la formazione artistica? Senz’altro anche di una trasmissione o di una rielaborazione, forse, nel migliore dei casi, di conoscenze tanto teoriche quanto pratiche, quindi di metodi, di strumenti, ma anche appunto di riferimenti critici e culturali che permettono di orientarsi e di dare una lettura anche alle complessità che si incontrano, ma è o dovrebbe essere anche molto di costruzione di strumenti e di metodologie specifiche delle pratiche e dei desideri artistici differenti, che mi sembra non sia un aspetto abbastanza sviluppato in molti dei curricula, dei corsi di studio, delle formazioni artistiche. Penso appunto a una funzione proprio di mentoring, cioè a una elasticità da parte di practitioners, di persone che hanno una pratica artistica, curatoriale, quello che è, che lavorino dentro a contesti di formazione proprio nell’affiancare collettivamente e individualmente – mi piacerebbe anche riflettere su questa doppia dimensione – studentesse e studenti rispetto allo sviluppo delle fasi di lavoro e delle metodologie, degli strumenti, ma anche proprio un po’ delle competenze più sottili che servono a potersi immaginare delle modalità di lavoro, dei formati di lavoro, eccetera. Quindi un’idea non solo di trasmissione ma di accompagnamento, di supporto che, in parte, è molto legata anche alla questione dell’entusiasmo, del desiderio, della fiducia, in modo da aprire degli immaginari di possibilità. Ma anche a immaginare che la formazione debba essere personalizzata rispetto a delle pratiche artistiche molto diverse, perché artisti e artiste che hanno dei desideri, dei linguaggi, dei modi di espressione, delle forme diverse, hanno bisogno di imparare a sostenere quel tipo di percorso e comprendere come dare forma a un percorso artistico che corrisponde a quelle modalità, e non a delle modalità preesistenti e in qualche modo rigide. Quindi, questa mi sembra una prima questione per me importante rispetto alla dimensione di curriculum. Tendo – per schematizzare, per me stessa – a pensare a un curriculum di una formazione artistica come un equilibrio tra una parte di input e una parte di accompagnamento, di mentoring. Dove per input – che è un termine che anche nel riscrivere il curriculum di DAS Theatre ad Amsterdam avevamo tenuto presente come un polo – per input intendo la possibilità di creare anche delle collisioni e degli incontri inattesi che lo studente o la studentessa non sceglie e non cerca. Questa, soprattutto parlando forse di alta formazione, di persone che hanno già un percorso artistico, è una questione in cui si inciampa molto immaginando un curriculum, perché arrivano anche persone in formazione che hanno le idee molto chiare su ciò di cui hanno bisogno. Per me è molto utile pensare che in qualunque momento della nostra vita abbiamo comunque una conoscenza limitata di ciò di cui abbiamo bisogno, perché è legata a ciò che già sappiamo rispetto alla nostra pratica, al nostro percorso. Quindi da un lato do molto valore all’idea che la formazione sia anche un luogo di incontri ingombranti, non voluti, scomodi, che obbligano a prendere posizione, a fare delle deviazioni per evitarlo, quell’ostacolo, a decidere di attraversarla, quella questione. E quindi in questo potere anche agonistico – non antagonistico ma agonistico – cioè di polarizzazione e di rimessa in discussione di posizioni, di incontri fortuiti e non scelti. Dall’altro lato invece insieme a una funzione che riguarda più una dimensione, se vogliamo, più maieutica, però più la dimensione di accompagnamento, di sostegno di ciò che già c’è o che c’è in quella pratica e in quel percorso. Io poi mi sono molto interrogata – ma questo un po’ per formazione personale mia, per il mio background, che viene anche molto dalla teoria – sulla dimensione della parte teorica nella formazione artistica, anche qui avendo attraversato delle esperienze diverse, alcune in cui – forse anche quella italiana fa parte di queste – è molto molto presente, almeno all’interno dell’università, non so bene rispetto alle accademie; e altre in cui invece la dimensione è tutta molto piegata sulla pratica e la questione di come la teoria entra nel lavoro, secondo me è una questione importante affinché ci sia un incontro, un impasto che, da un lato è anche scelto dagli studenti e dalle studentesse in base alla teoria che vogliono leggere. Ad esempio, in programmi molto internazionali c’è una grossissima questione sui curricula rispetto alla necessità di decolonizzare proprio la parte teorica, di non leggere solo autori e autrici occidentali pubblicate da case editrici che stanno negli Stati Uniti, ma appunto di portare dentro la conversazione degli strumenti metodologici, delle visioni del mondo, dei termini, dei concetti che vengono da altre epistemologie, e questa è una questione. Dall’altra, di avere un rapporto organico e un po’ carnale con la teoria, nel senso che aiuti a liberare la pratica artistica da una sua dimensione ancillare rispetto alla teoria, che mi sembra che è quella che in certa dimensione più accademica (nel senso di università) in Italia, a volte un po’ rischia di passare. Cioè l’idea che la pratica artistica sia un po’ un’illustrazione di un sapere che è costruito altrove, quando invece dovrebbe essere il contrario o comunque in una relazione più viscerale. Anche guadagnarsi un senso di libertà e di autonomia rispetto a dei discorsi dentro i quali naturalmente le pratiche in qualche modo si inseriscono o verranno lette, quindi è utile esserne consapevoli. Questa è un’altra preoccupazione che io ho in questo momento: mi sembrano un po schiaccianti sull’ambito artistico e penso in particolare – qui chiudo anche sulla questione da cui ero partita all’inizio – a certe teorie critiche e in qualche modo a una serie di consapevolezze molto articolate che giovani generazioni di artisti e artiste giustamente iniziano ad avere su grosse questioni politiche – in senso alto del termine – ma che dominano moltissimo anche le agende delle istituzioni culturali, ad esempio. Parlo del modo in cui stanno filtrando e sono filtrate nelle istituzioni artistiche e culturali le grosse questioni legate alla dimensione coloniale, post- e de-coloniale, legate in generale a tutti i temi delle identity politics e delle dimensioni di soggettività minoritarie, dove credo ci sia molto lavoro da fare e, forse, la formazione un po’ di questo lavoro deve prenderlo su di sé per favorire una dimensione più vitale tra le pratiche artistiche e una serie di discorsi all’interno dei quali si trovano iscritte in questo momento in un modo o nell’altro.

[C.P.]: Ovviamente ci sono tantissimi temi, non so se riusciamo a esaurirli tutti. Comunque non vorrei dire cose banali, ovvie. Per me è abbastanza ovvio che un curriculum nella formazione artistica, per esempio, debba avere un’attenzione alle teorie critiche, all’estetica o alla storia dell’arte. Questo è ovvio, mi sembra inutile dirlo. Però, mentre Silvia parlava, mi veniva in mente che forse quello che potrebbe essere sottolineato è il fatto che non è tanto la conoscenza della storia dell’arte del Medioevo, del Rinascimento, del Manierismo, che ne so io... a determinare la possibilità di comprendere, capire fino in fondo, capire meglio la ricerca artistica contemporanea. Ecco, andrebbe, in qualche modo, non so adesso come esattamente, ma andrebbe pensato proprio il contrario. Cioè la possibilità di entrare in contatto diretto con degli artisti, a conoscere – e me l’ha fatto venire in mente Silvia mentre parlava di incarnare, non mi ricordo le parole esatte che ha detto, ma insomma di incarnare in qualche modo la teoria, di farne proprio materia vibrante dell’esistere, della propria esistenza anche fisica, corporea, sensibile. Questa possibilità di conoscere come lavorano le artiste e gli artisti contemporanei può dare la possibilità di capire ancora di più del semplice approccio storico a cui siamo abituati: che ne so Giorgione o Giovanni Bellini o Tiziano. Non si tratta di superare la visione storica, si tratta di rendersi conto che la possibilità di entrare nella ricerca artistica, nel suo farsi, proprio nella sua vita attuale, ci consente la possibilità di entrare ancora meglio, ancora di più, con più strumenti e con più possibilità conoscitive e anche, di nuovo, con più entusiasmo, con più emozione, nell’analisi di un quadro di mezzo millennio fa. E questo, senza voler dire cose banali sulla necessità di mettere nel curriculum teorie, storia, eccetera. L’altro discorso riguarda il laboratorio. Allora, secondo me, ovviamente, avendo fatto sostanzialmente quello, nella vita come docente, sono importantissime le dimensioni laboratoriali. E perché? Perché secondo me la dimensione laboratoriale funziona su un piano non tanto lineare, di trasmissione lineare di contenuti, quanto su un piano di condivisione circolare dei contenuti. È un piano nel quale – almeno io l’ho sempre interpretato così – il ruolo del mentor, del tutor, del docente, non è tanto quello di una guida verso un obiettivo, quanto un ruolo di un ospitante, cioè di colei o colui, la quale o il quale ha un allenamento, una capacità, una sensibilità di accogliere all’interno del proprio pensiero le ricerche, i progetti, gli abbozzi di ricerca di studentesse e studenti un po’ come se fossero proprie. E questa possibilità di ospitare nella propria mente le idee degli altri determina una… dovrebbe determinare, insomma io sempre spero, mi auguro, provo a fare in modo che determini un simile allenamento da parte di tutti i partecipanti. Quindi per me la dimensione laboratoriale è una dimensione faticosa sicuramente, che spesso va incontro a molti problemi, per esempio quando ci sono troppi partecipanti, questo è difficile da fare. Però la dimensione laboratoriale per me è una dimensione di lavoro collettivo, proprio nel senso che tutte e tutti partecipano al lavoro di ciascuno. È come la creazione di una mente collettiva, di una mente che pensa insieme, pensa come un po’ un tutt’uno e questo è uno di quegli aspetti che determinano l’entusiasmo a cui facevo riferimento prima, perché è un modo di condividere desideri, passioni, entusiasmi, ma anche difficoltà o ansie, che avvengono senza o con un bassissimo livello di competitività. E quindi senza quella ostilità sotterranea che c’è fra persone che competono fra loro, e invece rappresenta un momento proprio di gioia condivisa, di affetti gioiosi condivisi. Ecco, il laboratorio per me, la dimensione laboratoriale nella formazione dovrebbe puntare a questo. Poi, ciò detto, è chiaro che questo può essere più caratteristico di laboratori che sono tenuti da docenti che, come me per esempio, non hanno capacità specifiche artistiche, quindi non sono legati alla fotografia o al video o la pittura, ma vagano, si muovono in un territorio in cui va bene l’una cosa o l’altra. E questo tipo di approccio può essere chiaramente anche alternato a insegnamenti più tecnici, che sono chiaramente necessari. Però ecco, i due punti che mi sono venuti in mente adesso in questo punto del dialogo fra noi sono proprio questi qui, cioè il rovesciare il rapporto di comprensione tra storia dell’arte, fra arte storica e arte contemporanea, da una parte, e il pensare al laboratorio come una costruzione di un’abitudine a un pensiero condiviso.

[S.B.]: Se posso vorrei solo raggiungere una nota proprio di entusiasmo rispetto a questa definizione di laboratorio che hai dato, Cesare, e che mi sembra bellissima. Nel senso che da un lato del laboratorio, forse un aspetto che è esplicitato meno ma che a me sembra tanto importante, è proprio l’idea di uno spazio in cui testare delle cose, provarle: la dimensione anche più semplice della parola laboratorio, quindi uno spazio anche di ricerca pratica in una logica di tentativi. Ma questa questione di attivare una condivisione circolare di contenuti e questa immagine bellissima che dai di accogliere nel proprio pensiero le ricerche e il pensiero di altri come un invito a questa pratica, mi sembra una questione cruciale della formazione come dello spazio in cui si può sospendere quella dimensione di competizione e anche di estrema attenzione sull’individualismo, in qualche modo sull’originalità, la firma, l’unicità di ciascuna, e invece coltivare una dimensione di condivisione appunto non retorica, ma radicale nell’accogliere lo spazio di altri, che crea anche degli anticorpi politici rispetto poi all’attraversamento delle condizioni e delle circostanze del lavoro artistico. E mi sembra una questione tanto preziosa, cioè questo rapporto tra valorizzare le unicità, perché non significa appiattirle, ma stare in una dimensione collettiva di accoglienza e di condivisione del mondo degli altri e delle altre. Mi sembra molto preziosa.

[C.P.]: Se posso aggiungere, io ovviamente ho avuto tante soddisfazioni da questo lavoro, anche individuali, di riconoscimento individuale, però posso assicurare a tutte voi, che siete più giovani – ovviamente mi permetto di parlare così, un po’ d’anziano – ma io vi assicuro che non c’è gioia maggiore del fatto di sentire questa condivisione di idee in una situazione di gruppo di lavoro in cui, appunto, si pensa qualcosa e si sente come propria, indipendentemente da chi l’ha tirata fuori, da chi ha contribuito, eccetera, eccetera, ognuno la sente come propria e al contempo come degli altri. Ed è il momento più bello, veramente sono i momenti più belli che io ho vissuto e di cui sono proprio gratissimo alle persone, ovviamente, che lo hanno vissuto come me, a questo strano mestiere, passione alla quale obbediamo. E, se posso aggiungere, questo è forse l’aspetto più complicato dal punto di vista tecnico, pratico, ma questa dimensione di condivisione, di orizzontalità e di ospitalità dei pensieri richiede un tempo esteso, richiede un approccio al tempo che non è quello dell’ora di lezione o dei tempi, che ne so, anche dell’orario di chiusura e di apertura delle mostre o delle istituzioni, ma richiede tempi estesi. In questo senso, per quello dicevo la residenza, ma la residenza non soltanto come dimensione di produzione su un determinato progetto, e va bene, di una persona o di un gruppo, ma anche la residenza come un momento di autoformazione, cioè di una situazione in cui più persone si ritrovano per un tempo che ovviamente sarà un tempo determinato, sarà una situazione temporanea ovviamente, ma in cui si ritrovano a condividere tutto, pranzo, cena, notte, in un approccio, in un accoglimento di un tempo che va un po’ al di là delle ore di inizio o fine di un compito.

I modelli di riferimento

00:47:16

[A.S.]: Grazie mille per questo scambio che mi ha fatto pensare come, anche per me, le mie esperienze all’interno delle scuole o dell’università sono state quelle che mi hanno gratificato di più, a livello proprio professionale e, appunto, per questa dimensione collettiva della condivisione circolare dei contenuti, per esempio. È una cosa dalla quale io ho imparato moltissimo, nonostante magari a volte sia stata invitata come mentore o come tutor o come insegnante ecco. Riflettevo anche su quello che ci siamo dette in precedenza rispetto alla inclusione di contenuti altri, di contenuti diversi, quindi contenuti che non provengono dalle teorie che abbiamo studiato principalmente, quindi l’inclusione di contenuti postcoloniali, l’inclusione di contenuti provenienti dai queer studies, eccetera, eccetera. E molte volte mi sono dovuta scontrare invece con la rigidità dei protocolli che fanno parte delle istituzioni, soprattutto quelle legate all’educazione. Mi sono ritrovata, per esempio, a insegnare a una scuola superiore pratiche artistiche socialmente impegnate e, rispetto ad alcuni temi, ho proprio trovato un muro che non sono riuscita ad attraversare, o a scavalcare o nemmeno ad aggirare. Quindi mi chiedevo un po’ quali sono secondo voi le sfide più grandi della formazione artistica in Italia oggi, e anche se c’è qualche modello di riferimento per esempio per voi, per il vostro percorso, sia in Italia ma anche fuori dall’Italia. Perché questa è una domanda che appunto mi faccio spesso.

[C.P.]: Io credo che non sia tanto un problema di contenuti. Penso che sia giusto che fra le docenti e i docenti di una scuola ci siano persone che hanno approcci molto diversi. Adesso lo racconto così come un aneddoto ma, insomma… io mi ricordo che forse nel 2011 o 2012 avevo fatto un laboratorio allo IUAV che era venuto particolarmente bene con un numero molto alto di studentesse e studenti ma che era stato un bellissimo laboratorio, divertentissimo anche per me. Molti di questi studenti dopo il mio laboratorio hanno avuto un laboratorio con Vezzoli e ovviamente alcuni di loro, un po’ per scherzo, ma anche un po’ erano francamente quasi, come dire… non riuscivano a mettere insieme le due esperienze di quello che avevano fatto con me e poi quest’artista che invece gli insegnava a come fare il portfolio, a come andare a parlare con i galleristi, a come comportarsi nell’ambito del mercato, eccetera eccetera. Io l’ho trovata una cosa molto – a parte divertente come aneddoto – però l’ho trovata una cosa anche molto utile in realtà per loro, per vedere lo spettro di possibilità che questo lavoro all’interno dell’istituzione formativa offre, può avere. E quindi, secondo me, non è tanto un problema di quali contenuti il docente porta, quanto di quale approccio propone. Perché io credo che uno può anche fare un intero laboratorio sull’economia dell’arte e non è detto che sia necessariamente meno creativo del corso che ho appena fatto sull’indicibile. Il problema è l’approccio, è l’attitudine, è che tipo di entusiasmo e di nuovo, ripeto, che tipo di sviluppo delle potenzialità si riesce ad attivare. È chiaro che se il docente, la docente ha un approccio rancoroso, depresso, frustrato eccetera. non trasmetterà nessun entusiasmo e non svilupperà nessuna potenzialità. Viceversa, indipendentemente anche dal contenuto, un approccio entusiasta, secondo me, crea comunque quello sviluppo di potenzialità che dicevamo.

[S.B.]: Io provo invece a rispondere sul lato dei contenuti, per quello che vedo, così a completare, almeno in parte, l’approccio di Cesare con cui risuono molto. Pensavo che secondo me una sfida, rispetto ai curriculum della formazione artistica e ai suoi contenuti, una domanda che mi pongo è rispetto alla trasparenza dell’agenda dell’istituzione che fa formazione. Ci chiedete di pensare anche ad alcuni casi, stavo ripensando a programmi che ho visto e mi hanno ispirato. In realtà moltissimo mi ispirano progetti e programmi che nascono in un ambito non istituzionale e non di istituzioni dedicate alla formazione, quindi tutta la dimensione del laboratorio, della residenza in senso più aperto, che anche Cesare ci raccontava e di cui ha molta esperienza. Naturalmente perché ci sono delle dimensioni, in quel contesto, di tempo, spazio, in qualche modo di libertà di alcune coordinate che mi sembra creino dei contesti più generativi. Invece, guardando a un contesto più istituzionale, rispetto a questa questione dell’agenda del corso, mi viene in mente il lavoro che ad Amsterdam ha fatto negli ultimi anni SNDO, diretto da Bojana Mladenović, è un Art’s Bachelor dell’Accademia di Teatro e Danza, da cui sono uscite moltissime coreografie e coreografi, molti anche italiani, importanti di queste ultime generazioni. È un corso che ha un forte accento sulla pratica individuale, quindi sulla diversità di pratiche che sostiene, sulla ricerca e creazione artistica più che sulla produzione anche qui di competenze in senso stretto, ma negli ultimi anni c’è stato un posizionamento molto preciso da parte del corso, della sua direzione, rispetto a una revisione del curriculum, direi in chiave decoloniale in senso ampio e quindi anche a dei grossi cambiamenti rispetto alla faculty, al tipo di incontri e di persone che le studentesse e gli studenti avrebbero incontrato. Tra le altre cose, facendo un grosso progetto in relazione ad altre realtà, anche indipendenti, della scena olandese, invitando Angela Davis qualche anno fa, in una serie di momenti, di lecture, di laboratorio. Perché lo nomino? Perché ho trovato ispirante e confortante un gesto di tale chiarezza. Chiaramente non è compito di un bachelor di danza formare i propri studenti e studentesse rispetto a una serie di questioni che riguardano appunto la lettura critica dei paradigmi di razza, di genere, di classe, ma per SNDO in questo momento lo è e la chiarezza di posizionamento che quel corso sta trasmettendo, secondo me aiuta un’altrettanta chiarezza nella risposta di chi dentro quel corso sta studiando o si approccia a studiarci o decide di non studiarci. Mi ha fatto molto riflettere su quali sono invece le agende di altri corsi che non sembrano averne, perché hanno dei curricula in qualche modo più vari, ma che in realtà corrispondono evidentemente ad un’agenda d’altro tipo, quindi a questo bisogno anche un po’ autoriflessivo delle istituzioni di formazione di riflettere su quel tipo di questione. L’altro esempio che mi sento di fare è in realtà un’esperienza che sto attraversando da partecipante – difficile dire studentessa in senso stretto – però è un contesto che è nato lo scorso anno, in realtà all’inizio di quest’anno, a Londra, all’interno di Sadler’s Wells, che è un grosso teatro londinese. È nato un programma che si chiama Rose Choreographic School, che ha, con un open call, raccolto 13 persone, ponendo una domanda molto semplice, cioè in che misura hanno, al di là dei background di provenienza e delle discipline in cui lavorano, una ricerca che intendono come coreografica e, sulla base di questa domanda, cioè una domanda che guardava una questione specifica, come possiamo ampliare quello che intendiamo per il coreografico, al di là della coreografia intesa come scrittura di danze, e di una domanda rispetto al perché state scegliendo una scuola in questo momento, perché vorreste per due anni – un programma che dura due anni e mezzo in realtà. Una dimensione di scuola che ha riunito 13 persone abbastanza diverse per pratiche e per formazioni. Più che una scuola è una dimensione di ricerca, se vogliamo, sebbene è una scuola che rivendica il nome di scuola. E una questione molto basica che la scuola offre è una grande libertà di autodeterminazione del curriculum da parte di chi partecipa. E anche, una questione molto basica e molto concreta, ma non irrilevante, un sostegno economico, quindi un budget di lavoro, di ricerca per ciascuna, che permette anche di attivare, in dialogo con la scuola, in autonomia, una serie di risorse, appunto, di advisor, di mentor, di incontri, di viaggi... cioè in qualche modo di autodeterminare che cosa significa portare avanti la propria pratica, o studiare o portare avanti la ricerca che si sta facendo per ciascuna delle persone, insieme a un accesso abbastanza accessibile agli spazi che sono gli studi del teatro nuovo che ancora non c’è, ma che aprirà tra un mese e che quindi dovrebbero permettere anche un accesso agli spazi di lavoro piuttosto fluido. E questa è una questione che, per contro, ho trovato spesso molto difficile in altre scuole dove invece la dimensione del sostenere se stessi nel momento in cui si sta studiando – anche qui parlo di alta formazione, quindi magari di persone che hanno una vita autonoma e pienamente adulta, e la dimensione di accesso a uno spazio. Prima Cesare diceva, appunto, tempi lunghi, anche la notte... la possibilità di avere le chiavi di un luogo, di poterci entrare in qualsiasi ora, è una questione che ho sentito risuonare tantissimo in altri programmi come una necessità reale.

[C.P.]: Io non ho sufficienti conoscenze per citare esempi virtuosi fuori dall’italia, per mia ignoranza ovviamente. Però mi viene da parlare di nuovo dell’esperienza del Mattatoio nel periodo appunto 2018-19 fino al 2022 quando io sono stato Presidente dell’Azienda Palaexpo, e ripeto non è stato soltanto merito mio, anzi principalmente non è stato merito mio, ma insomma, è stata un’esperienza che andava vicino a una specie di punto di incontro tra tutte queste diverse problematiche che abbiamo affrontato. Abbiamo attivato un master, la prima edizione in collaborazione con Roma 3 e la seconda edizione in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti, quindi con due istituzioni formative classiche. C’era un percorso di formazione molto specifico per un numero di persone limitato, ovviamente di partecipanti limitato. Però, parallelamente a questo corso di formazione che aveva sia un aspetto teorico che un aspetto laboratoriale, c’era la possibilità, per gli artisti che venivano per esempio a fare i mentor, di risiedere e di provare nei locali, perché il Mattatoio, in particolare la Pelanda, ha diversi spazi utilizzabili anche per provare una coreografia o un concerto o un pezzo di teatro, o un tableau vivant, o varie cose. Oltre a quelli in cui fare studio, ricerca, laboratorio. E mettere insieme l’aspetto della formazione con quello della produzione e poi di offrire al pubblico del quartiere e della città, e anche, forse, cominciava un po’ anche a un pubblico internazionale, e in questo senso – apro una parentesi – i 20, 25, 30 – perché poi il primo anno erano un po’ di più, il secondo un po’ di meno – partecipanti del master, hanno rappresentato un volano di passaparola e di trasmissione di informazione, di conoscenza rispetto a questa esperienza, preziosissimo. Il pubblico è stato creato in questi 3-4 anni di lavoro al Mattatoio, principalmente da questo gruppo, da questo nucleo. È importantissima questa funzione, cioè una funzione di mediazione, proprio nei confronti degli amici, dei conoscenti, degli altri studenti di altre scuole, di altre discipline, che è importantissima, perché non è il comunicato stampa, non è la cosa scritta su Artribune, è proprio una trasmissione di esperienza diretta. Quindi questa apertura al pubblico. Ci mancavano due passetti, diciamo. Uno era appunto la possibilità di avere le chiavi del posto e di riuscirci a passare qualsiasi momento del giorno e della notte per sviluppare progetti che possono avere bisogno di tempi e di spazi meno normali, diciamo, un po’ più strani. E l’altro è la mia fissazione. Questo veramente... questo è stato un fallimento, non sono riuscito a farlo. Introdurre il tema dell’alimentazione, del mangiare e del bere, come ricerca, come attività performativa, come potentissimo strumento anche di incontro tra culture diverse, tra persone provenienti da culture diverse, e di facilitazione di quell’incontro, condiviso, orizzontale, di pensiero collettivo, di mente di gruppo, a cui facevo riferimento prima. Al Mattatoio c’erano duemila metri quadri, quando io ho cominciato questa esperienza da presidente... c’erano duemila metri quadri che erano praticamente finiti ed erano destinati da progetto alla ristorazione. In quattro anni non siamo riusciti, per intoppi burocratici del Comune di Roma, ad attivarli. Praticamente stanno adesso, e sono già passati due anni da quando io non sono più presidente, stanno ancora nella situazione del 2018. E questo per stupidissime questioni del Comune di Roma, di cui è inutile parlare. Però ecco, delle esperienze che io conosco – e ripeto, in questo ho sicuramente molta meno esperienza di Silvia in ambito internazionale – è la più vicina a quella convergenza fra tutti i diversi aspetti che in questo bellissimo dialogo di cui ringrazio voi e anche Silvia, abbiamo toccato.

Responsabilità pubblica e privatizzazione

01:03:44

[F.F.]: Rimanendo un po’ su questo tema dell’internazionalità, o comunque delle tendenze internazionali, abbiamo notato che, anche un po’ come diceva Silvia sul tema delle agende che supportiamo, che comunque supportano determinate istituzioni, abbiamo notato che in linea con una più generale tendenza europea, e direi anche globale, la formazione artistica ha visto una crescente spinta verso la finanziarizzazione e verso un processo di internazionalizzazione motivata più dalla quantità che da approcci e metodologie, in un contesto di generale sottofinanziamento e disincentivazione verso lo studio delle materie umanistiche e vediamo, ad esempio, nel Regno Unito anche di chiusura di dipartimenti storici, che hanno formato artisti e intellettuali che ancora oggi segnano poi la pratica culturale. Questo ha portato sicuramente ad un aumento delle istituzioni private, ad una revisione delle priorità delle accademie e delle università pubbliche, spesso orientate verso logiche di mercato a discapito dell’inclusività, ad esempio, a causa di rette molto alte, ma anche a una trasformazione delle relazioni con gli studenti e le studentesse e il territorio in cui queste istituzioni operano. Quindi vorrei chiedervi quali sfide emergono da questo scenario e come possono essere affrontate, e in che modo è possibile salvaguardare il valore formativo e culturale delle istituzioni formative pubbliche senza piegarlo al profitto.

[S.B.]: È una questione enorme e mi sembra cruciale, devo dire, non solo rispetto alla dimensione della formazione, ma anche della produzione artistica e della presentazione di opere. Arrivo da qualche giorno a Parigi, dal Festival d’Automne, a vedere una serie di mostre, dove anche la dimensione del peso dei privati dentro l’offerta e la capacità di offerta culturale e artistica di produzione, e anche di produzione di mostre, di spettacoli, di programmi di altissimo livello, di ricerca, è stata molto visibile, e naturalmente lo è anche in Italia, con alcuni di questi interlocutori. E chiaramente pone una riflessione, come pone una serie di domande, un po’ così a caldo di questo incontro, perché una serie di soggetti privati si stanno sostituendo a dei soggetti che erano pubblici in delle funzioni di questo tipo. In qualche modo sottraendosi a un ruolo che poteva essere quello di essere mecenati a sostegno di istituzioni pubbliche, e assumendone direttamente il ruolo. Chiaramente questa è una dimensione problematica, e lo dico anche da curatrice, da operatrice culturale che lavora in alcune organizzazioni e istituzioni che avrebbero bisogno e beneficerebbero invece di un rapporto di sostegno per esercitare una funzione che riteniamo pubblica. Nello stesso tempo, forse, è un dato di fatto e paradossalmente mi capita di vedere, dentro a contesti privati, degli spazi di libertà di pensiero e di esercizio di immaginazione, di visione, di radicalità, anche maggiori di quelli che mi sembra trovare invece nelle istituzioni pubbliche, probabilmente per le ragioni che dicevate adesso. E questo probabilmente vale anche per la formazione. Quindi da un lato una questione che per me è aperta e anche dolorosa è di chiedermi se forse dobbiamo riguardare alla dicotomia tra privato e pubblico e forse ragionare piuttosto in termini di funzione pubblica e di chi in questo momento è in grado di esercitarla. Dove per funzione pubblica intendo anche la questione dell’accessibilità e dell’inclusività, che ponevi naturalmente. C’è la possibilità di aprire e rendere attraversabili delle esperienze anche a persone per le quali la formazione nel pubblico in molti paesi europei sta diventando inaccessibile. O la capacità di pensare al di fuori di alcuni parametri anche burocratici che il pubblico ha. Penso, ad esempio, nella formazione, almeno per la mia esperienza fuori Italia, alla differenza tra chi arriva con un passaporto dell’UE e chi arriva con altri passaporti dove le rette sono drasticamente diverse e le politiche stanno andando verso un’accentuazione di questo gap. Quindi le questioni di accessibilità lì ridiventano centrali. Chiaro che il tema è appunto quello di una funzione pubblica, cioè in qualche modo di determinare, non ai fini del mercato, ma ai fini diciamo di rafforzare la vita civica di una società, quali sono i curricula, quali sono le questioni che nella formazione si attraversano. Forse la sollevo come domanda, forse anche un po’ come provocazione a me stessa per prima, cioè se non sia il caso di rivedere queste coordinate e di darci dei compassi un pochino più puntuali rispetto al che cosa alcune realtà rendono possibili o, in futuro, a come si possa lavorare tra realtà pubbliche e private in questo senso. Lo smantellamento di una serie di contesti di formazione nel mio osservatorio che è legato appunto più al teatro e alla danza, ad esempio tutta la situazione del Regno Unito – ma credo sia abbastanza analogo anche per le arti visive che poi sto frequentando un po’ grazie a Rose – è stata clamorosa anche proprio nel vedere interi dipartimenti scomparire e colleghe e colleghi che in Italia sarebbero docenti universitari strutturati, in qualche modo in una posizione non discutibile, perdere completamente il lavoro che avevano e la possibilità di continuare a farlo è abbastanza agghiacciante naturalmente. Quindi questa rimane una questione davanti a cui mi sento abbastanza paralizzata, forse mi dico che riguardare dei parametri e delle distinzioni, forse è necessario per immaginare delle forme di sopravvivenza di spazi di formazione, ma anche di spazi di pensiero critico, in qualche modo di coltivazione di una libertà intellettuale rispetto a una serie di sfide e questioni dell’oggi, di possibilità di immaginazione del futuro, coltivare degli spazi che forse non possiamo pensare siano dentro alle istituzioni formative pubbliche, o non soltanto. Questo, solo per chiarire la mia posizione, scusate, da una posizione di estrema difesa naturalmente della scuola e della formazione come funzione pubblica, non vorrei essere fraintesa su questo, ma è un po’ così, un confronto con una realtà che mi sembra invece un po’ contraddirla, questa possibilità.

[C.P.]: Sì, assolutamente sono d’accordo, è cruciale sostenere la formazione pubblica, è cruciale anche e soprattutto per un paese come l’Italia che, forse rispetto ad altri paesi, ha una qualità, storicamente, della formazione pubblica piuttosto alta, ed è cruciale, andrebbe capito, anche in termini economici, anche in termini di sopravvivenza. Trent’anni fa, da come me la ricordo io, è cominciato un processo in cui i collezionisti di arte contemporanea hanno cominciato ad aprire le gallerie. Dopo un po’, dopo qualche anno, dopo qualche decennio, hanno cominciato ad aprire le fondazioni e adesso le fondazioni, alcune fondazioni di arte contemporanea in Italia, senza fare nomi, hanno la possibilità di fare mostre che nessun museo pubblico ha da un punto di vista economico. E questo, sì, è abbastanza grave. Non so se c’è un antidoto a questo, non so cosa proporre. Però so, per esperienza diretta, perché per quattro anni ho fatto il presidente di un’azienda che faceva riferimento al Comune di Roma e quindi che rientra nella sfera pubblica che, prima di tutto, i soldi sono spesso spesi male. Non entro ovviamente nello specifico, ma... per esempio, insomma, AWI potrebbe fare un’incursione, una ricerca su quanto guadagnano i dirigenti, non artistici, dirigenti amministrativi, dirigenti operativi, dirigenti legali delle istituzioni pubbliche e scoprire delle cose abbastanza… insomma, scandalose. Ma oltre a questo, un dato di fatto vero, reale, è che le istituzioni pubbliche spesso sono tarpate da vincoli, da regolamenti, da cavilli, da questioni amministrative veramente, veramente molto costrittive e asfissianti. E su questo, non lo so, insomma, già basterebbe, per dire... uno spazio museale, se dentro una mostra deve mettere, che ne so, un pezzo musicale, un artista che fa un pezzo di musica all’interno di una mostra cosiddetta di arti visive, deve chiedere il pubblico spettacolo. E chiedere il pubblico spettacolo è questione di soldi, di impegno delle risorse umane interne, di tempo, di burocrazia, documenti, eccetera, eccetera, che è una cosa tremenda, completamente inutile, assurda. A chi poi lo devi chiedere queste cose? Con chi dovrebbe perdere questo tempo? Con uffici che praticamente fanno parte della stessa istituzione, per esempio nel caso del Comune di Roma. E quindi già basterebbe, secondo me, snellire, abolire alcune assurdità di questo tipo e garantire, per esempio, che un’istituzione pubblica che organizza una mostra non dovrebbe passare attraverso, per esempio, i costi della pubblicità all’interno degli spazi del Comune, o insomma gli spazi pubblici, come un qualsiasi altro privato, per dire. Ma così, di piccole cose di questo tipo, o le normative antincendi, o le cose che veramente solo le istituzioni pubbliche rispettano perché i dirigenti hanno paura che, altrimenti, chiaramente se incorrono in qualche errore... Insomma, andrebbero molto semplificate e snellite le procedure amministrative, soprattutto. E questo già aiuterebbe un po’ le istituzioni, oltre, ripeto, a spendere meglio i soldi che ci sono. Ah, l’ultima cosa che voglio dire. Una possibilità, secondo me, di nuovo, è quella di integrare le istituzioni che si occupano di proposta al pubblico, di mostre, performance, concerti, eccetera. Integrare molto di più con la dimensione formativa, cioè dare a musei, teatri pubblici, la possibilità di offrire crediti formativi. Noi, per esempio, come Palaexpo, abbiamo dovuto – abbiamo fatto con piacere anche – però abbiamo dovuto legarci all’università una volta, all’accademia l’altra, perché non potevamo, come istituzione, dare crediti formativi nel master. E questo, secondo me, anche è assurdo. Questo aiuterebbe su vari fronti, io credo, le istituzioni museali, i teatri nazionali, per esempio, eccetera.

Cartoline

01:16:14

[A.S.]: Grazie mille. Purtroppo siamo arrivate... Sì, siamo arrivati alla fine di questa puntata, ma prima di salutarci vorrei fare un’ulteriore, diciamo, domanda. Dato che il programma si chiama Baci da AWI, vi chiederei a chi vorreste inviare una cartolina, da dove e perché?

[C.P.]: Ma guarda, io voglio inviare una cartolina a Luca Lo Pinto, che ha diretto il MACRO a Roma negli ultimi quattro anni. No, forse cinque... cinque anni. Eh vabbè, a parte un anno di pandemia, insomma, vabbè, come se fossero quattro. E credo che abbia proposto un modello sperimentale metamuseale che è dei più interessanti di cui io sia mai stato a conoscenza.

[S.B.]: Allora, firmo anch’io la cartolina di Cesare a Luca Lo Pinto, se posso. Ma invece ho un dove che mi è a un certo punto apparso nel sentire Cesare parlare della questione del condividere la tavola e il cibo, del mangiare insieme. E quindi la cartolina, invece, come dire, ha questo tema. Alle questioni di cui abbiamo parlato oggi mi piacerebbe mandarla dalla cucina di PAF, Performing Arts Forum, a Saint-Erme, in Francia, non tanto lontano da Parigi, che è un centro di residenza. In realtà è un antico monastero che molti anni fa un artista, Jan Ritsema, morto qualche anno fa, molti anni fa comprò e trasformò in uno spazio di residenza aperto. Ed è una cartolina che mando da un momento preciso perché ricordo in uno dei winter meetings, era direi tra dicembre del 2012 e gennaio del 2013, quindi è un po’ una cartolina dal passato, in questa cucina di PAF mi ritrovai a lavare dei piatti alle cinque del mattino, insieme ad altri, naturalmente, dopo una lunga notte di Capodanno, era notte di Capodanno, e a fare quelle chiacchiere di tarda notte, lavando centinaia di bicchieri. E rimane un ricordo molto vivido di molte delle questioni che abbiamo un po’ cercato di dare forma o desiderio oggi insieme.

[C.P.]: La firmo anche io con un grande entusiasmo. È una delle ispirazioni per me da molti, molti, molti anni, il PAF.

[A.S.]: Grazie a Silvia Bottiroli e a Cesare Pietroiusti. Speriamo di aver dato qualche spunto di riflessione rispetto al tema dell’educazione per le discipline delle arti visive e performative in Italia e non solo. Nella descrizione del podcast trovate tutti i link a cui abbiamo fatto riferimento durante la conversazione e infine per dimostrare il vostro supporto ad Art Workers Italia potete associarvi e trovate tutte le informazioni sul nostro sito www.artworkersitalia.it. A presto e Baci da AWI!

Silvia Bottiroli, Cesare Pietroiusti, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti

Silvia Bottiroli, PhD, è una curatrice e ricercatrice che opera nel campo delle arti vive e in particolare nelle intersezioni tra performatività, pratiche istituzionali e pedagogie. È stata direttrice artistica di DAS Theatre, master internazionale per pratiche artistiche e curatoriali ad Amsterdam (2018-2021) e fa parte dell’artistic cohort di Rose Choreographic School a Londra. Cesare Pietroiusti è un artista italiano noto per il suo approccio concettuale e interdisciplinare. Laureato in Medicina con una tesi in psichiatria, la sua formazione accademica ha influenzato profondamente il suo lavoro, che spesso esplora temi legati alla psicologia, all'economia e alle relazioni umane. È docente di laboratorio arti visive presso lo IUAV di Venezia e la NABA di Roma e ha co-diretto le due edizioni (2020-2022) del Master in Arti Performative promosso da Palaexpo in collaborazione con Università Roma 3 e Accademia di Belle Arti di Roma.

Nota