Lavoro e Post-Lavoro
Gaia Benzi, Vincenzo Estremo, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti
Negli ultimi anni, il dibattito sull’arte e il lavoro ha guadagnato un nuovo slancio, intrecciandosi con questioni di precarietà, automazione e cambiamenti sociali globali. Da un lato, l’idea romantica dell’autonomia dell’arte come sfera separata dalla politica e dal commercio ha definito l’arte come eccezionale e pre-capitalista. Dall’altro, vari studiosi sottolineano come il mondo dell’arte rifletta le dinamiche della gig economy, con artisti e artiste in bilico tra vulnerabilità e rivendicazioni di diritti. Quali sono i rischi e le potenzialità insite nella richiesta di riconoscere l’arte come lavoro? E quali traiettorie possono indicare futuri alternativi per l’economia e le lotte dell’arte?
Highlight
- Presentazioni 00:00:00
- Rischi e potenzialità del riconoscimento dell’arte come lavoro 00:03:58
- Il lavoro dell’arte nella gig economy 00:14:13
- Quali traiettorie per il futuro 00:27:07
- Cartoline 00:38:44
Presentazioni
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[Fabiola Fiocco]: Ciao a tutte e a tutti e benvenute alla settima puntata del podcast Baci da AWI, la capsula digitale del Giornale dell’Arte realizzata da Art Workers Italia. Trovate l’indirizzo al sito nella descrizione del podcast. Baci da AWI racconta come le lavoratrici dell’arte e della cultura si muovono nell’attuale scenario economico e politico italiano. È un contenitore di pratiche di resistenza ed esperienze che raccoglie contenuti cross-mediali, podcast, interviste, saggi brevi e appunti di viaggio in forma audiovisiva, realizzata dalle soci di AWI insieme ad associazioni, organizzazioni e persone alleate. Abbiamo pensato ad un diario di viaggio che tocchi diverse regioni della penisola per restituire una fotografia del paese reale da nord a sud, tra centro e periferia, che mette in discussione le narrazioni dominanti anacronistiche che vedono l’Italia come un luogo meraviglioso ma immobile.
[Alessandra Saviotti]: Baci da AWI è un toolkit aperto, assemblato collettivamente per orientarsi nel settore dell’arte contemporanea e immaginare altri modi di praticare il lavoro culturale e artistico. Fino alla fine di quest’anno ospiteremo lavoratrici, lavoratori, attiviste e attivisti per parlare del tema del lavoro artistico e culturale contemporaneo, in particolare analizzando gli strumenti che le lavoratrici e i lavoratori dell’arte possono usare per orientarsi nel settore.
[F.F.]: Fin dalla sua nascita AWI si è concentrato sulla promozione di un diverso discorso attorno al tema del lavoro artistico, sulla creazione di strumenti e strategie pratiche per navigare l’ambiguità del settore e su forme di pressioni politiche su organi istituzionali nazionali e transnazionali. Pensiamo però che sia importante, a conclusione di questa capsula, rimettere in discussione l’idea stessa di lavoro artistico, per evitare di ricalcare istanze lavoriste e burocratizzanti e cercare di aprire così a nuovi e diversi immaginari politici e sociali. Siamo qui oggi con Gaia Benzi e Vincenzo Estremo per parlare del tema del riconoscimento del lavoro artistico da un punto di vista più teorico e ideologico. Benvenute e benvenuti, noi siamo Fabiola Fiocco e Alessandra Saviotti e modereremo la conversazione. Per cominciare vorrei chiedervi di presentarvi brevemente, entrando anche già nel vivo della puntata e dunque spiegandoci secondo voi che cosa significa parlare di lavoro artistico oggi.
[Gaia Benzi]: Sono Gaia Benzi e sono una lavoratrice del settore dell’editoria. Dopo essere stata all’interno dell’università per tanto tempo e aver fatto ricerca, prima a livello di dottorato e poi di post-doc. A un certo punto, nel 2019, ho deciso di lasciare l’università e, appunto, dedicarmi all’editoria. E da allora mi occupo del lavoro artistico in campo intellettuale per quanto riguarda soprattutto la scrittura e tutto ciò che afferisce alla scrittura.
[Vincenzo Estremo]: Ciao, sono Vincenzo Estremo e al momento coordino un dottorato per un’accademia italiana e anche io vengo dall’università: sostanzialmente ho fatto ricerca all’università, prima con un dottorato, poi con degli assegni. Ho sempre – o quantomeno da tanto tempo – lavorato nell’ambito dell’arte contemporanea. Prima con attività di ricerca e curatela soprattutto sull’immagine in movimento e poi con attività prettamente legate all’art writing e alla scrittura. Al momento vivo in Italia, ma per anni ho vissuto in Austria e in Turchia.
Rischi e potenzialità del riconoscimento dell’arte come lavoro
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[Fabiola Fiocco]: Grazie mille e benvenute ancora. Per la prima domanda inizierò con un’introduzione forse un po’ lunga, però fidatevi. Nella teoria e nella storia dell’arte si parla di autonomia dell’arte per andare ad indicare, e qui semplifico per necessità, la separazione dell’arte rispetto ad altri ambiti della vita umana, come la politica e il commercio. Questa visione, radicata all’idea romantica dell’artista genio e nel principio dell’arte per l’arte, attribuisce all’arte un valore sociale unico, lontano dalle dinamiche del mercato, dai principi di utilità o valore di scambio. Il concetto di autonomia è infatti strettamente connesso a quello di eccezionalità, andando a descrivere come l’arte rappresenta una forma produttiva precapitalista, in quanto le artiste non vendono il loro lavoro come forza lavoro tradizionale, ma piuttosto il risultato della loro produzione. Questo ha portato diverse studiose e studiosi, tra cui ad esempio Dave Beech, a mettere in discussione il riconoscimento dell’arte come lavoro, nella misura in cui questo rischierebbe di cancellare l’opposizione dell’arte al capitalismo e favorire un approccio pragmatico all’economia dell’arte. Sulla base di questa premessa, probabilmente troppo lunga, mi vorrei chiedere quali sono secondo voi i rischi e quali le potenzialità insite nella richiesta di riconoscimento dell’arte come lavoro.
[G.B.]: Io partirei dicendo che personalmente sono totalmente contraria alla visione romantica dell’artista e alla definizione di arte come eccezionalità. Trovo che sia una delle tare più deleterie che ci trasciniamo, tra l’altro non a caso dal periodo in cui il capitalismo poi è esploso e si è definito più o meno per come lo conosciamo oggi, cioè l’Ottocento e la rivoluzione industriale. Per cui tutto il mito dell’eroe romantico, dell’artista romantico, dell’eccezionalità dell’artista e dell’arte, che ci trasciniamo da quel periodo, per me è stato estremamente deleterio. Io – prima non l’ho detto, lo aggiungo adesso – mi sono occupata in ambito universitario di storia della letteratura, in particolare di letteratura rinascimentale. Un periodo in cui invece l’arte era vista come contigua all’artigianato. La forma di artigianalità che secondo me è sempre presente nell’arte, era riconosciuta e veniva valorizzata. Committenti, artisti, pubblico: tutti avevano chiaro che l’arte si faceva innanzitutto in gruppo. Cioè che perché ci fosse un artista con la sua firma a emergere c’era bisogno di una bottega. Perché ci fosse un musicista a emergere c’era bisogno di un intero oratorio. E così via. Gli scrittori erano un po’ un caso a parte, però c’era una comunità delle lettere che di fatto permetteva agli scrittori di avere un pubblico, di avere uno scambio, di avere dei testi, banalmente, accesso a dei testi, e dunque allargare il proprio giro di conoscenze. Per cui questo elemento dell’artigianalità e della comunità era molto forte ed era quello che proteggeva anche, in parte, gli artisti e le artiste. Ne permetteva il lavoro e, non a caso, ne permetteva anche un lavoro prospero, cioè qualcosa che fosse riconosciuto socialmente e che, in effetti, ancora oggi noi conserviamo memoria come uno dei momenti in cui l’arte è stata più al centro dell’immaginario culturale e pubblico. Quindi per me è molto importante preservare questo aspetto dell’artigianalità all’interno della creazione artistica. Quando poi l’artigianalità viene disconosciuta, questo affama chi lavora con l’arte, a mio avviso. Perché l’arte sarà anche autonoma dagli altri ambiti della vita, nel senso che... per carità l’autonomia nell’arte a livello di espressione non si mette in discussione qui, però le persone che poi l’arte la fanno non sono autonome, hanno le stesse esigenze di tutti gli altri lavoratori e lavoratrici. Quindi conciliare queste due cose è fondamentale per permettere l’esistenza dell’arte in primo luogo. La domanda è chi e come si prende cura degli artisti. Un tempo esisteva il mecenatismo. Oggi dovrebbe essere lo stato e le leggi a supplire con dei contributi adeguati alcuni elementi strutturali di precarietà del lavoro artistico. E in questo ci sono esempi virtuosi anche all’estero. Penso, non so, alla Francia dove, almeno per quanto riguarda il settore che conosco meglio, che è quello editoriale, ci sono dei contributi importanti rispetto alla pubblicazione di opere, alla loro divulgazione, alla traduzione all’estero e così via. Quindi questo ruolo di mecenate che prima veniva svolto dai privati e che ancora oggi, in parte, viene svolto dai privati – però in un paese contemporaneo – dovrebbe essere a mio avviso svolto principalmente dallo stato.
[V.E.]: Io vorrei un attimo rovesciare i termini della questione. Perché? Perché sostanzialmente siamo spesso, troppo spesso, abituati a pensare all’arte come attività produttiva. In questo c’è un problema di fondo che è il problema stesso dell’arte. E provo un attimo a spiegarmi. Parto da una questione astratta, poi dopo proverò a spiegare. E poi provo ad entrare invece con degli esempi. L’arte in realtà si è dimostrata negli ultimi anni come una sorta di avanguardia del lavoro. Una sorta di avanguardia del lavoro soprattutto perché nel lavoro è riuscita a fare un salto impressionante da quello che era il campo della produzione al campo della distribuzione. Quindi in un certo qual modo l’arte messa insieme al sistema mediatico – e questo è un processo di rivoluzione tutto interno all’arte che è iniziato sostanzialmente con la fotografia per intenderci, ma poi è proseguita in maniera molto fruttuosa con il cinema, con il video e con tutte le tecnologie di registrazione e riproduzione delle opere di senso, mi verrebbe da dire. Ecco, l’arte in quel frangente è riuscita in maniera rivoluzionaria – forse l’unica rivoluzione di cui è stata in grado – di trasformare il lavoro da produttivo a distributivo. Quindi in questa dimensione distributiva, sostanzialmente noi non abbiamo più l’oggetto, non abbiamo più il prodotto e un po’ mi collego a quello che diceva Gaia in precedenza, cioè non abbiamo più quella dimensione artigianale. Però penso che non avere più quella dimensione artigianale non sia un qualcosa che piova dall’alto, ma sia qualcosa che sia nato tutto interno alla produzione artistica. Quindi, sostanzialmente, l’arte non produce più, ma distribuisce e basta. Virno parla di virtuosismi. Ecco, non voglio arrivare tanto in là, però voglio dire che in un sistema in cui la distribuzione è alla base della ricchezza, il capitalismo sostanzialmente sussume immediatamente questa idea, che è un’idea eccezionale, da un punto di vista, diciamo, proprio di mercato, e l’arte diventa un’alleata inaspettata e sicuramente molto disposta a implementare quella che è la sete non solo produttiva, ma soprattutto di mercato. Quindi si crea, secondo me, soprattutto a partire da questo apparentamento con i media, una sorta di condizione che dire contraddittoria è fargli un piacere, ecco. Una contraddizione all’interno della quale noi ci troviamo a dover poi lavorare e soprattutto a dover districare una matassa che sembra quasi indistricabile, perché caschiamo continuamente in delle condizioni a loro volta contraddittorie. Risolviamo un problema, ne apriamo un altro. Non è solo col mecenatismo. Perché poi il mecenatismo porta di per sé altri problemi. Quindi, quale è la parte costruens di questo sistema intricato? È innanzitutto una parte destruens, ovvero partire da questo disapparentamento con un sistema estremamente potente da un punto di vista economico come quello capitalistico, che non vuol dire fare un’arte socialista, fare un’arte, diciamo, politicamente schierata. No, sostanzialmente vuol dire disapparentarsi da questa ossessione continua del mostrarsi e del distribuire. Questo da un punto di vista astratto. Da un punto di vista pratico, ovviamente uno dei problemi sostanziali della coscienza di una classe che io, in un saggio che sto scrivendo, ho definito asintotica, ovvero una classe che, come Godot, si aspetta sempre ma non arriva mai. Ecco, il problema sostanziale è costruire dal basso una coscienza che possa essere quanto più possibile comune. E questo è un po’, secondo me, un problema che riguarda AWI, ma che riguarda sostanzialmente tutte le persone che lavorano nel settore dell’arte.
Il lavoro dell’arte nella gig economy
00:14:13
[A.S.]: Grazie mille per questo primo giro di risposte e grazie anche per avere dato anche una sorta di inquadramento storico, un appiglio storico, no? Gaia prima parlava appunto del Cinquecento e ripensando a quello che ha appena concluso Vincenzo, quest’idea magari anche della smaterializzazione dell’arte che, ovviamente, può essere stata una delle cause per le quali ci ritroviamo ora a parlare di questo. Ma, insomma, spero che avremo modo durante la puntata di ritornare su questi spunti. Quindi procederei con la seconda riflessione e conseguentemente al secondo giro di domande. Il mondo dell’arte internazionale, quindi non solo quello italiano, riflette una politica del lavoro che rappresenta una variante della gig economy precaria, tipica appunto del capitalismo contemporaneo. Questa realtà, come sappiamo, è caratterizzata da insicurezza e sfruttamento sistemico e penso che sottolinei anche il legame tra arte e politica del lavoro, quindi un fattore che ha contribuito all’aumento di una certa consapevolezza a partire dalla crisi del 2008. Kuba Szreder, che è un teorico e curatore, ha scritto un libro che si chiama The ABC of the Projectariat e propone qui in questo libro una lettura del lavoratore e della lavoratrice dell’arte come parte di un più ampio gruppo di lavoratori precari, invitando gli artisti e le artiste a riconoscersi all’interno di una rete di soggetti accomunati dalle stesse condizioni di vulnerabilità, che è quello che ha finalmente innescato la fondazione di AWI nel 2020. Quindi vorrei chiedervi di riflettere insieme su in che modo il concetto di lavoratore e lavoratrice dell’arte può essere utilizzato per rivendicare una maggiore protezione giuridica e riconoscimento politico del lavoro artistico e anche come possono i modelli di organizzazione collettiva o le normative sul lavoro essere adattati per rispondere alle specificità del settore artistico, garantendo al contempo diritti, sostenibilità e alleanze con altre categorie di lavoratori precari.
[G.B.]: Io vorrei rispondere, ma è semplicemente per riallacciarmi a quello che diceva Vincenzo alla fine, che secondo me è il cuore della questione, e cioè costruire una coscienza comune. Perché, come in ogni contrattazione sindacale, il segreto è l’uniformità. Per cui negli altri settori a dare forza sono stati i contratti nazionali che, infatti, non a caso, da decenni sono sotto attacco e sono smantellati lì dove possibile, dall’industria alla scuola, anche in settori che sembravano totalmente blindati da questo punto di vista. Mi viene in mente la scuola perché anche la scuola è un lavoro... l’istruzione diciamo, in generale, è un settore contiguo a quello artistico, a quello del lavoro intellettuale. Spesso chi opera nell’arte, nell’editoria, anche nella musica, poi insegna la materia che mette in pratica, da un punto di vista artistico, e lì c’è un attacco ai diritti dei lavoratori frontale per cui uno stesso mestiere può avere decine di inquadramenti sindacali differenti. Il mondo del lavoro artistico-intellettuale in questo senso è sempre rimasto indietro, perché veramente, a meno che non si voglia tornare alle corporazioni rinascimentali, è sempre stato caratterizzato da una grande frammentazione. Anche per il discorso sull’eccezionalità dell’arte e dell’artista che è a monte e che facevamo all’inizio. Oggi però è più urgente che mai trovare formule che ci traghettino oltre la definizione generale di lavoro autonomo dove gli artisti e le artiste spesso ricadono. Molto frequentemente ci troviamo a essere partita IVA che non soggiacciono a regole pensate per categorie di lavoratori che fatturano quanto fatturiamo noi, ma che fatturano 3, 4, 5 volte quello che può fatturare un artista, uno scrittore, un musicista e così via. Quindi veniamo trattati come lavoratori ricchi quando in realtà poi siamo più simili alle nostre bisnonne che facevano le commissioni lavorando da casa e guadagnavano a cottimo. Questo per capirci. È più simile a una specie di lavoro quasi nero che emerge attraverso lo strumento della partita IVA ma non arriva a coprire quello per cui la partita IVA è stata pensata: gli avvocati, i giornalisti, i medici e quant’altro. Quindi il segreto anche qui è l’uniformità, cioè la coscienza collettiva, la coscienza comune, individuare delle esigenze comuni. Molto pratiche. Sulla base di quelle stabilire delle rivendicazioni e un po’ le avete citate, dal reddito di continuità ai salari minimi, a delle griglie contrattuali, gli indennizi per maternità e malattia, passando anche per una contribuzione previdenziale specifica per le nostre categorie che non ci faccia ricadere dentro, appunto, la gestione separata o altri calderoni di questo tipo. Che secondo me sono strade da percorrere. Chiudo dicendo una cosa: quello che sottolineava Vincenzo è assolutamente vero. Questa smaterializzazione dell’arte e l’ingresso dell’arte nel campo anche della distribuzione. Quindi una perdita di artigianalità comunemente intesa. Però ci tengo a dire che per me artigianalità è proprio una conoscenza legata a una pratica. Per cui anche in questo processo di smaterializzazione dell’arte, per me, continua a esserci un’artigianalità da rivendicare al di là del fatto che non ci sia più il tavolo con i pennelli o la macchina da scrivere Olivetti. Ecco, diciamo così. Per cui secondo me è un rapporto che continua a crescere. E che continua a essere valido.
[V.E.]: Allora, Alessandra tu hai citato sostanzialmente una parola molto interessante che è quella di proletariato. Intorno a questa parola ci sono però in realtà tre distinzioni da fare nell’ambito della tecnologia contemporanea. La prima è quella di cyberproletariat. E la seconda è quella di cybertariat. Sono due termini molto simili ma molto diversi. In italiano si perdono un po’ queste sfumature. Pure perché sono dei neologismi che nascono e che hanno la loro dimora nella lingua inglese. Però proviamo un attimo a mettere a fuoco questi due termini per capire un po’ la differenza anche per interpretare il lavoro dell’arte. Sostanzialmente quando parliamo di cyberproletariat parliamo di un proletariato che è una sorta di risultato o conseguenza della grande cyborgizzazione del mondo che può andare dalla molto banale richiesta di una maggiore attività logistica per consegnarci i nostri pacchi a noi che abbiamo il culo peso e che ordiniamo su Amazon o, più semplicemente, per questioni legate all’estrazione di materie prime in alcuni paesi del sud del mondo o in altre aree geografiche che non sono quelle dell’occidente. Il cybertariat invece è a un livello superiore. A un livello superiore proprio da un punto di vista di lavoro che fa, di conoscenze che richiede e soprattutto di collocazione di classe. La differenza sostanziale tra il cyberproletariat e il cybertariat è che il cyberproletariat a volte, partendo dal basso, riesce ad organizzarsi. Ne sono degli esempi classici ed evidenti le lotte dei riders in Italia. Ma non solo in Italia. C’è un’avvocata – tra l’altro è la mia vicina di casa – Giulia Druetta, che quando organizzai How to Strike per AWI, invitai. Ecco, Giulia è riuscita, venendo da una sfera, che è la sfera della giurisprudenza, a disciplinare e a garantire delle condizioni che, dignitose è comunque il minimo, per dei lavoratori che erano dei cyberproletari. No, quindi dei cyberproletari. Il cybertariat invece lavora sulle piattaforme, con le piattaforme, utilizza le piattaforme e lì, in un certo qual modo, ritroviamo un po’ la figura dell’artista o del teorico, della teorica, della curatrice in generale, di persone che lavorano da un punto di vista intellettuale su concetti e utilizzano quelle infrastrutture per sostanzialmente fare il proprio lavoro. La differenza sostanziale è che mentre i primi vivono in comunità, lavorano in comunità, hanno bisogno di condividere i loro problemi, i secondi, quelli appartenenti al cybertariat. Cybertariat tra l’altro – non l’ho detto nella foga – è un termine coniato da Ursula Huws, una sociologa fantastica, purtroppo poco tradotta in italiano, però molto molto importante per la definizione del lavoro contemporaneo, non solo quello artistico, ma di tutto il lavoro contemporaneo nelle sue sfumature e nelle sue intersezioni con la tecnologia. Ecco, il cybertariat ha molta difficoltà ad organizzarsi in classe perché vive molto in delle condizioni di solitudine ed è educato e si educa a delle logiche che sono tipicamente neoliberali, in cui sostanzialmente vive e lavora allo stesso livello del proprio – e userò un termine che viene dal passato – padrone, ma ovviamente non condivide con il padrone gli stessi privilegi. Può succedere che – e questo succede molto spesso nell’ambito dell’arte contemporanea – che una curatrice viva all’interno di un contesto che è un contesto fuori dalla propria scala sociale di provenienza, ma ne assimila sostanzialmente i modi. Ecco, questo è tipico del cybertariat ed è questo uno dei problemi che pone questa classe, la nostra classe, in una enorme crisi identitaria che, purtroppo, è quella che noi affrontiamo continuamente. Ovviamente alla fine di ogni risposta mi verrebbe da chiedermi sempre “che fare”, no? Per citare il carissimo. Ecco, anche lì c’è da riprendere un po’ in mano – un po’ quello che diceva Gaia – un discorso che vada a minare quelle che sono delle prassi, che sono delle prassi sostanzialmente di fatto, cioè tutti quanti, tutte quante, pensiamo che per fare il lavoro che facciamo dobbiamo accettare alcune condizioni che sostanzialmente accettiamo, che non sono semplicemente delle condizioni di lavoro. Ecco, un contratto non fa primavera, mi verrebbe da dire. Quello che dovremmo fare è far partire delle nuove prassi di lavoro in cui quello che abbiamo accettato fino ad oggi, il pranzo che abbiamo condiviso fino ad oggi con alcune figure non venga più condiviso, ma venga condiviso con i nostri simili, la nostra classe.
Quali traiettorie per il futuro
00:27:07
[F.F.]: Grazie mille Gaia e Vincenzo. E anzi, questa ultima risposta riesce anche a continuare ad andare verso la direzione che abbiamo immaginato per il dibattito. Infatti, dopo aver riflettuto un po’ sul passato e il presente, abbiamo deciso, abbiamo pensato, di passare ad una parte un po’ più sul futuro, il futuribile. Negli ultimi anni il dibattito sul futuro del lavoro è stato profondamente influenzato dalla crescente automazione quanto dai cambiamenti sociali globali. Parallelamente l’arte – e soprattutto, mi sento di dire, la teoria dell’arte – sono emerse come spazi e strumenti per immaginare futuri alternativi, a volte anche distopici. Ma più spesso solidali, sperimentando con paradigmi lavorativi o circuiti economici altri, che andassero ad ibridare, infiltrare o ripensare totalmente le strutture egemoniche. Quali pensate possano o debbano essere le traiettorie future verso cui indirizzare il lavoro artistico e le lotte ad esso connesse?
[G.B.]: Eh, questa è una domanda da un milione di dollari. Nel senso che, quali traiettorie per il futuro? Per il lavoro artistico, chi lo sa, il lavoro artistico è sempre influenzato dal presente e dalla visione del presente e del futuro che hanno i singoli individui. Per cui è difficile prevedere traiettorie future – ripeto, parafrasando Vincenzo – in un periodo in cui l’identità è così in crisi, l’identità a tutti i livelli, individuale, collettiva, proprio le categorie che compongono l’identità sono messe in crisi. In un processo che a mio avviso è anche positivo per tanti versi, però è imprevedibile. Quindi, difficile rispondere. Però alcune tendenze generali ci sono secondo me, perché da un lato c’è sempre una maggiore attenzione e cura alle dinamiche interpersonali e ai rapporti di potere e micropotere all’interno di contesti ristretti. Quindi si vede tanta produzione artistica che si concentra su questi elementi. Io, ovviamente, ho una visione che privilegia quello che è il contenuto artistico di natura narrativa e quindi lo vedo questo come un fenomeno molto diffuso. Dall’altro, però, c’è attenzione anche alla situazione internazionale, i grandi temi della guerra, della carestia, che ora è declinata sotto forma di inflazione, povertà diffusa e della morte. Basti pensare al trauma collettivo mondiale della pandemia che ancora non abbiamo minimamente elaborato. Tornano ad essere al centro delle narrazioni, delle visioni, anche fantastiche e immaginifiche. Spesso le cose di cui sto parlando non sono esposte in maniera didascalica, ma sono rielaborate in maniera estremamente immaginifica, quindi si vedono queste tendenze lavorando su grandi numeri, guardando tante cose, consumando tanta arte, leggendo tanti libri e così via. E soprattutto, però, il dato veramente interessante è che queste tendenze si stanno arricchendo e articolando anche grazie all’apporto di nuove voci e di nuove possibilità espressive. Complice un allargamento della platea stessa degli artisti e delle artiste a categorie che in passato spesso erano escluse o comunque marginalizzate. Penso alle donne in generale, ma soprattutto alle persone razzializzate, alle persone disabili, queer, transgender e così via. Quindi un allargamento che sicuramente ci porterà in territori inesplorati, che sicuramente dinamita l’identità per come l’abbiamo conosciuta fino adesso, la normalità per come l’abbiamo conosciuta fino adesso e apre prospettive che, per esempio, dal mio posizionamento non sono in grado di vedere, ma che sono molto curiosa di scoprire.
[V.E.]: Ovviamente ogni domanda sul futuro è una domanda che sostanzialmente è destinata a cadere nel vuoto, però è sempre bello farsele. Io seguo molto la vostra attività, soprattutto la vostra attività in generale, seguo tanto quella che è la prassi del lavoro, perché nella prassi del lavoro che AWI fa, sostanzialmente si vede dove questa classe che si spera, prima o poi, si formi, anche con delle alleanze che sono trasversali, come quelle che menzionava giustamente Gaia: un allargamento non solo di un pubblico, ma di un pubblico attivo fatto di migranti, fatto di persone giustamente o ingiustamente legate ad una minorizzazione soprattutto economica. Ecco, tutto ciò ha a che vedere con la capacità, o la nostra capacità, di cedere parti di privilegio in alcune forme di lotta. Per esempio, io ho sempre una sorta di idiosincrasia quando sento parlare di gruppi di pressione, perché quando sento parlare di gruppi di pressione, sostanzialmente vedo già un gruppo che si eleva fuori da questa costruzione grassroot, per usare di nuovo un termine inglese, no? Quindi un gruppo di pressione è, in un certo qual modo, fuori dalla costruzione collettiva e dal basso, nella mia idea, che può essere ovviamente personale ed errata. Uno degli obiettivi secondo me prioritari in questa trasformazione, che è una trasformazione di cui abbiamo visto semplicemente la punta, che è soprattutto la parte dell’impatto delle nuove tecnologie generative sulla produzione che continuiamo a chiamare creativa, ma che di creativo ha ben poco. Ecco, una delle cose è sicuramente un allargamento alla base dei discorsi della necessità di preservare una dimensione, lasciatemelo dire, umana, perché sostanzialmente quella che abbiamo per anni sperato essere la cyborgizzazione dei nostri corpi, per citare Donna Haraway, è purtroppo diventata una singolarità. Il nostro corpo non riesce più, i nostri corpi non riescono più ad assimilare tutte le informazioni che ricevono. Ecco, ripartire da una forma di umanità: per esempio sono molto contento di vedere che AWI ha tante più riunioni in persona. Perché? Perché sostanzialmente la cosa che credo oggi di fronte a questa dimensione distopica che viviamo, che è la dimensione distopica in cui sostanzialmente stiamo conversando anche in questo momento, l’organizzazione di micronuclei territoriali sia quasi non necessaria, ma vitale per la sopravvivenza. Quindi ecco, nel futuro, un’aspettativa per il futuro è quella di ricominciare da piccole comunità di persone che si riconoscono e che sono includenti per poter portare avanti un discorso sul lavoro e sui cambiamenti che il lavoro intanto ci impongono, ci vengono imposti sostanzialmente dall’alto.
[A.S.]: Grazie mille. Ahimè, siamo quasi arrivati alla fine della puntata e quindi prima dell’ultima domanda vorrei riflettere un po’ su questo che ha detto Vincenzo ora. Perché appunto la natura di un’associazione come AWI che è nata nel bel mezzo della pandemia, quando appunto ci siamo accorte e accorti di avere un corpo che però era totalmente bloccato e in un certo senso quasi smaterializzato di fronte a tutti i quadratini di Zoom, è molto importante perché ha dato la possibilità a persone come me, per esempio, che non vivo in Italia, di essere molto più impegnate e investire le proprie energie e il proprio tempo, e anche le proprie competenze, se vogliamo metterlo sul piatto, in un progetto, non voglio dire visionario, ma un progetto che appunto parli di futuro e di futuro di tutte e tutti i lavoratori del settore, che comprende ovviamente non solo chi lavora nel campo dell’arte, ma anche persone che lavorano magari più nell’editoria, come ad esempio Gaia. Credo che questa presa di coscienza sia stata veramente importante e un’esperienza del genere che è relativamente nuova per il panorama italiano ha bisogno di tempo per trovare la direzione, soprattutto perché c’è un gruppo ovviamente di persone che gestisce il lavoro day-to-day e siamo praticamente tutte direi, eccetto una persona, volontarie e volontari in questo viaggio, per cui una cosa importante è anche l’autoformazione e la condivisione di competenze e anche condivisione di percorsi politici molto diversi all’interno del gruppo. E una cosa sulla quale vorrei riflettere anche il fattore della decentralizzazione dell’organizzazione, quindi diciamo che questa possibilità di incontrarci online principalmente è ancora molto importante, sta un po’ alla base per includere persone che non vivono per esempio a Milano, o a Torino o nei grandi centri di produzione dell’arte contemporanea, ma anche persone che vivono, non so, in paesini sperduti della campagna romagnola, per esempio, o paesini sperduti della campagna della Sicilia, per esempio, e, ovviamente, questo presuppone anche un certo tipo di consapevolezza, un certo tipo di accesso a internet banalmente, ma vabbè questo è un altro discorso. Per cui grazie per aver sollevato anche queste riflessioni perché appunto alla soglia del quinto anno dell’associazione è sempre interessante magari mettere in discussione anche appunto la prassi – come dicevi tu Vincenzo – e anche pensare appunto a diverse direzioni che l’Associazione può prendere, per cui grazie per questi spunti.
Cartoline
00:38:44
[A.S.]: Dato che il programma si chiama Baci da AWI, vorrei chiedere a Gaia e Vincenzo, a chi vorreste inviare una cartolina, da dove e perché?
[G.B.]: Ma io, visto che siamo in chiusura d’anno, vorrei inviarla a un personaggio che secondo me è stato di grande ispirazione quest’anno, vorrei inviarla a Gisèle Pelicot da Roma per dirle grazie, perché anche se in questo caso non parliamo di lavoro e di diritti del lavoro, parliamo sempre di battaglie, di lotte e di coraggio nel portarle avanti, e abbiamo bisogno di esempi positivi, e abbiamo bisogno di persone che ci ispirino, e secondo me lei è una di queste.
[V.E.]: Io invece vorrei mandare un bacio e una cartolina a due persone, se mi è possibile. Una a Giovanni e una a Luisa, che erano due lavoratori, due operai, che lavoravano con me su di una catena di montaggi, di montaggio che faceva lavatrici anni fa, la manderei da Napoli, perché la fabbrica era vicina a Napoli, e perché la manderei a loro? Perché sostanzialmente loro sono stati i primi a sperimentare un’automazione feroce della produzione industriale, almeno le prime persone con cui sono venuto a contatto, e io ho avuto in un certo modo il privilegio di potermi smarcare, da quella condizione, osservandoli e osservandoli per l’anno che ho lavorato con loro, ho capito invece quanto fosse difficile non avere un’alternativa. Ecco, per me l’alternativa è stata sostanzialmente riuscire ad accedere a dei fondi per l’istruzione. Ho vinto delle borse di studio, sono riuscito a laurearmi, a fare l’università, e poi a continuare il mio percorso formativo. Ecco, per loro non c’era tutta questa alternativa, e il sistema industriale cominciava a decostruire quelle che erano invece le loro garanzie, le garanzie della generazione prima di loro. Ecco, non so che fine abbiano fatto Giovanni e Luisa, però vorrei tanto, se è possibile, mandargli una cartolina e un bacio.
[A.S.]: Grazie mille a Gaia Benzi e Vincenzo Estremo. Speriamo di aver dato qualche spunto di riflessione rispetto al tema del lavoro artistico e oltre. Nella descrizione del podcast trovate tutti i link a cui abbiamo fatto riferimento durante la conversazione, e per dimostrare il vostro supporto ad AWI, potete associarvi e trovate tutte le info sul nostro sito www.artworkersitalia.it. A presto e Baci da AWI.
Gaia Benzi, Vincenzo Estremo, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti
Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di storia e letteratura. Ha scritto, tra gli altri, per Jacobin Italia, Che Fare, Nazione Indiana, Micromega. Ha co-tradotto Il manifesto della cura (Alegre, 2021) e Vita di una donna Nera del Sud (Vita e Pensiero, 2023). Lavora nell’editoria. Vincenzo Estremo è Ph.D. internazionale in studi sui media, sul cinema e sulla comunicazione presso l’Università di Udine e la Kunstuneversität Linz. Attualmente ricopre la posizione PhD Course Leader a NABA (Milano e Roma) per PhD in Artistic Practice in collaborazione con l’Università di Göteborg.