capsule digitale

Lavoro nell’arte, lavoro nello spettacolo

Eugenio Delfino, Donato Nubile, Marta Bianchi, Rebecca Moccia

In questo episodio esploriamo le specificità del nostro settore spesso dimenticato dalla politica. L’art worker è ancora oggi una professione non regolamentata. In Italia, mancano infatti tutele basilari come contratti collettivi, retribuzioni adeguate e fondi previdenziali, e molti operatori e operatrici del settore si trovano a lavorare in condizioni precarie, senza riconoscimento. Confrontiamo la situazione deɜ art worker con quella di settori affini, come cinema e teatro, dove le lotte collettive hanno portato a diritti concreti. Quali lezioni possono trarre lɜ lavoratorɜ dell’arte per migliorare le proprie condizioni?

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Presentazione

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Fabiola Fiocco: Ciao a tutte e a tutti e benvenut alla quinta puntata del podcast Baci da AWI, la capsule digitale del Giornale dell’Arte realizzata da Art Workers Italia. Trovate l’indirizzo al sito nella descrizione del podcast. Baci da AWI racconta come le lavoratrici dell’arte e della cultura si muovono nell’attuale scenario economico e politico italiano. È un contenitore di pratiche di resistenza ed esperienze che raccoglie contenuti crossmediali: podcast, interviste, saggi brevi e appunti di viaggio in forma audiovisiva, realizzate dalle soci di AWI insieme ad associazioni, organizzazioni e persone alleate. Abbiamo pensato a un diario di viaggio che tocchi diverse regioni della penisola, per restituire una fotografia del paese reale da nord a sud, tra centro e periferia, che mette in discussione le narrazioni dominanti anacronistiche che vedono l’Italia come un luogo meraviglioso ma immobile.

Alessandra Saviotti: Baci da AWI è un toolkit aperto, assemblato collettivamente per orientarsi nel settore dell’arte contemporanea e immaginare altri modi di praticare il lavoro culturale e artistico. Fino alla fine del 2024 ospiteremo lavoratrici, lavoratori, attiviste e attivisti per parlare del tema del lavoro artistico e culturale contemporaneo, in particolare analizzando gli strumenti che le lavoratrici e lavoratori dell’arte possono usare per orientarsi nel settore.

[F.F.]: Siamo qui oggi con Eugenio Delfino e Donato Nubile, benvenuti. Noi siamo Fabiola Fiocco e Alessandra Saviotti e con noi ci sono Marta Bianchi e Rebecca Moccia, attiviste di AWI, che modereranno la conversazione. Chiederei innanzitutto a Marta e Rebecca di presentarsi brevemente e presentare a loro volta i nostri ospiti.

Rebecca Moccia: Ciao a tutte e a tutti, io sono Rebecca Moccia, sono un’artista transdisciplinare, tra le fondatrici di Art Workers Italia. Per AWI ultimamente mi occupo dello sportello, uno spazio che abbiamo creato per supportare le nostre socie e soci in problemi legati all’ambito giuridico fiscale del lavoro. Lo sportello, oltre ad offrire un confronto da pari a pari tra le socie e i soci, si occupa anche di collegare diverse modalità, art workers, professioniste e professionisti, come avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro, in grado di offrire consulenze e supporto specifico su queste tematiche.

Marta Bianchi: Ciao a tutte e tutti, sono Marta Bianchi, sono una producer e presidente di Care Of, una realtà che dal 1987 si occupa di sostenere il lavoro delle artiste e degli artisti italiani. Sono cofondatrice di AWI. Sono felice di avere con noi Eugenio Delfino, parte fondante di Left Wing, già dirigente INPS e Donato Nubile, presidente di Smart.

Eugenio Delfino: Mi chiamo Eugenio Delfino, non sono fondatore, collaboro con Left Wing. Prima di smettere di lavorare ero in dirigenza dell’INPS e da un po’ di anni – diciamo da quando è iniziato il percorso di costituzione e costruzione dell’idealità di discontinuità – ho cominciato a occuparmi del meraviglioso mondo dello spettacolo.

Donato Nubile: Ciao sono Donato Nubile, grazie molte per avermi invitato. Sono presidente di Smart, una cooperativa impresa sociale. Sono direttore artistico di un centro culturale a Milano che si chiama Campo Teatrale e ancora non ho perso il vizio di andare in scena, qualche volta, quindi sono anche un attore, e soprattutto sono un grande fan di AWI.

[R.M.]: Grazie mille Eugenio Delfino e Donato Nubile per essere qui con noi oggi. Vorrei iniziare a delineare brevemente la cornice in cui ci muoviamo per entrare poi nel vivo delle domande ai nostri ospiti. AWI, come molte di voi sapranno, nasce a tutela del lavoro nell’arte. È un settore che è contraddistinto da una spiccata deregolamentazione e una mancanza di riconoscimento delle professioni. Se prendiamo ad esempio la figura dell’artista, che è chiave nel nostro settore, osserviamo come in Italia sia rappresentata – sia nel senso comune che nella politica e, a volte purtroppo, si autorappresenta ancora – in una chiave romantica, come qualcuno che si nutre d’arte. In questa prospettiva naturalmente aspetti chiave della professionalizzazione del lavoro come la retribuzione e la contrattualizzazione, ad esempio, sono spesso subordinati e bypassati in virtù di nozioni più auree come quella di vocazione, di ispirazione o di successo. In un contesto del genere naturalmente non sorprende la mancanza di: prima di tutto una legge quadro che definisca il settore, o un contratto collettivo nazionale specifico o, ancora, un fondo di previdenza dedicato alle art workers. Oltre a questo, vediamo il proliferare di forme contrattuali atipiche intermittenti, di lavoro nero o addirittura gratuito, normalizzato non solo dalle istituzioni private ma anche da quelle pubbliche. Questa condizione, come un cane che si morde la coda, indebolisce naturalmente le lavoratrici, portando alla creazione di un sistema fortemente elitario, fondato su regimi di autosfruttamento e a dinamiche di competizione che non sono favorevoli a un ambiente lavorativo sano e, aggiungerei, non sono favorevoli alla formazione di una coscienza di categoria che potrebbe portare in qualche modo alla socializzazione di questi problemi e a una mobilitazione per il cambiamento. Ma, per fortuna, non tutti i settori della produzione culturale in Italia sono esattamente così. Abbiamo alcuni esempi di professioni, seppur più giovani, come quelle legate al cinema, all’audiovisivo o anche antiche come il teatro, che hanno visto una traiettoria comunque diversa per la propria categoria, fatta di rivendicazioni collettive, di riconoscimenti e comunque regolamentazioni. Infatti, se ci fate caso, ad oggi, la maggior parte delle volte in cui si sente parlare di artista o arte, ad esempio negli spazi della politica, in Parlamento, si parla di spettacolo. Quindi, la proposta della puntata di oggi è cercare di comprendere in cosa differiscono lavoratrici e lavoratori dello spettacolo con quelli dell’arte e quale percorso è stato fatto per ottenere quelle tutele e riconoscimenti che hanno oggi. Questo ha lo scopo, come AWI, di trovare qualcosa da cui prendere spunto. Quindi quali sono questi passi e percorsi che possiamo intraprendere anche noi come lavoratrici e lavoratori.

Il lavoro dello spettacolo

00:07:29

[R.M.]: Comincerei, quindi, a parlare di lavoro in maniera molto pratica nei suoi aspetti più specifici e determinanti come quelli giuridico-fiscali. A proposito, chiederei quindi a Eugenio Delfino se può raccontarci cosa si intende quando parliamo di lavoratori dello spettacolo: chi sono, come sono inquadrati a livello giuridico e previdenziale e in cosa la loro posizione è cambiata nel tempo.

[E.D.]: Come avete già detto, l’attività rivolta alla ricreazione delle persone è un’attività antica molto antica, basterebbe citare i romani: “panem et circenses”, per essere banale, ma l’arte ha sempre rappresentato un modo di di intrattenimento per determinate categorie e poi anche per categorie più diffuse. L’arte è una cosa che si rappresenta dal vivo, dal vero. I sistemi di comunicazione – quest’anno celebriamo i cento anni della radio – hanno sostanzialmente cambiato il modo di fare arte perché a un certo punto si è potuto registrare una cosa e renderla particolarmente diffusa e usufruibile da più persone allo stesso tempo. Questa cosa toglie all’atto stesso presentativo la magia della unicità e della irripetibilità. In Italia – nonostante siamo il paese del sole, della luna, dei monumenti, delle cose – non abbiamo una definizione specifica e legale di quella che è l’arte. Abbiamo una definizione, anche se piuttosto impropria, di spettacolo. Ed è una definizione che è maturata circa un centinaio di anni fa: nel momento in cui nel nostro paese vigeva un sistema che si chiamava corporativo, le corporazioni, tutte queste attività che consideravano i datori di lavoro e i lavoratori come una parte del tutt’uno, hanno cominciato a costruire e costituire – nelle specializzazioni che nel frattempo sono state create – i fenomeni che poi hanno portato alla creazione nel 1934 della Cassa dei Lavoratori dello Spettacolo, e che dal luglio 1947, con il decreto del Capo Provisore dello Stato, sono stati trasferiti in quella che è stata la creazione dell’ENPALS, l’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Lavoratori dello Spettacolo. Qual è la particolarità della creazione di questo ente che toglie a moltissime altre figure che pur si occupano di arte in generale. È che l’ente nasce con la creazione di un elenco tassativo di figure che devono essere obbligatoriamente quelle per avere la possibilità di essere scritte all’Ente nazionale dei lavoratori dello spettacolo. Essendo un piccolo ente previdenziale ha già da subito cercato di allargare la platea dei propri iscritti, perché ha cercato da subito di occuparsi dei lavoratori indicati nelle tabelle e, quindi, pur vedendosi verificata una platea rigorosa di soggetti, ha cercato di espandere la platea dei propri iscritti considerando quelli che erano più affini alle figure che erano già previste. Per esempio, a un certo punto l’ENPALS apre a sarti, falegnami, a quelle persone che concorrono alla creazione dello spettacolo in quanto tale, poi gli sceneggiatori, i dialoghisti, gli adattatori cinematografici e quant’altro. Anche perché, pur essendo tassativo e rigoroso, l’ente stesso considerava l’elenco come un elenco in cui era possibile estendere ed includere. L’ultimo aggiornamento dell’elenco è stato effettuato con il decreto ministeriale 15 marzo 2005 circolare ENPALS dell’8 marzo 2006. Il concetto è che pur non avendo una definizione specifica, a un certo punto si è dovuto fare riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza è stata feconda in questo senso, sia in senso inclusivo sia in senso meno inclusivo. Però, a un certo punto, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito un criterio di iscrivibilità dei lavoratori al mondo dello spettacolo e non al mondo dell’arte, perché c’è una netta distinzione. A un certo punto, nella sentenza dell’agosto del 2003, si è stabilito che qualsiasi rappresentazione o manifestazione, specialmente ma non solo, di tipo teatrale o televisivo, che si svolge davanti a un pubblico appositamente convenuto o comunque appresa da un pubblico più ampio grazie allo strumento della tecnica, questo tipo di attività possa essere considerata spettacolo e chi pratica questo tipo di attività naturalmente è un lavoratore dello spettacolo. Per paradosso i lavoratori dello spettacolo sono tutti artisti ma gli artisti, di contro, non sono lavoratori dello spettacolo. Un pittore non svolge la sua attività creativa e realizzativa davanti a un pubblico e questo non impedisce alla sua opera di essere esposta in un museo o in un qualsiasi luogo dove può essere vista da moltissime persone, ma esso stesso però non è un lavoratore dello spettacolo perché quell’opera non si è svolta davanti a un pubblico ma, solo successivamente, è traslata alla visione del pubblico. 

Quando l’ENPALS è stato sciolto, all’ENPALS erano iscritti circa un milione di lavoratori dello spettacolo. L’ENPALS è stato sciolto un po’ di fretta. Il decreto di istituzione della grande INPS, cosiddetta legge Fornero, si chiamava Salva Italia, quindi di conseguenza è stato fatto in tempi veloci, è stato fatto senza confronto alcuno con le persone che venivano tolte da un sistema per essere introdotte da un altro. Che cosa è successo? È successo che l’ENPALS è stato sciolto e fuso nell’INPS esclusivamente per una questione di risparmi economici, perché i lavoratori dello spettacolo hanno visto inalterate quelle che erano le loro caratteristiche di coperture e assicurazioni previdenziali – salvo quelli che sono stati iscritti dopo una certa data che hanno degli svantaggi ulteriori. Le prestazioni sociali – che c’erano anche prima dell’accorpamento dell’INPS, ma che venivano pagate a sé stanti con l’apertura di una posizione previdenziale specifica da parte delle aziende o dei lavoratori stessi – sono rimaste come se fossero anch’esse una cosa completamente diversa, pertanto che non concorrono ad alcune cose. È successo che i lavoratori dello spettacolo, confluendo in un contenitore più ampio – un contenitore enorme, se voi pensate che i lavoratori dello spettacolo sono un milione, mentre i lavoratori iscritti all’INPS sono circa 30 milioni – non hanno avuto attenzioni particolari nell’immediato. Se voi pensate, per esempio, che la legge di incorporazione è del 2011 e la prima circolare che fa sì che le aziende possono versare i contributi con il nuovo sistema è del 2014. Con tutto il rispetto, i lavoratori dello spettacolo non sono stati il primo problema dell’INPS. In questo contesto si inserisce anche il ragionamento sul fondo unico dello spettacolo. Siccome si continua a ragionare di spettacolo, tutto ciò che è spettacolo, considerando così come era nell’ENPAS e così come è adesso nel Fondo Pensione ai Lavoratori dello Spettacolo presso l’INPS, ottiene dei finanziamenti, ottiene delle agevolazioni che tutti gli altri lavoratori non hanno. Tutti gli altri lavoratori – come voi sapete meglio di me perché siete quel tipo di lavoratori – hanno delle coperture previdenziali e assistenziali che sono proprie della loro natura specifica. Se sono artigiani fanno gli artigiani, se non sono artigiani si iscrive la gestione separata, o quello che tutte queste cose qui comportano. Per il momento ho finito.

Come è cambiato nel tempo

00:17:12

[M.B.]: Parlando invece di esperienze mutualistiche, di lotta dal basso e politiche, vorrei chiedere a Donato Nubile di raccontarci come è cambiato il lavoro nello spettacolo nel tempo, partendo dalla sua esperienza di attivista operatore e ora presidente della cooperativa Smart.

[D.N.]: La prima cosa che mi viene da dire è che in realtà i nostri mondi, intendo quello dello spettacolo della vivo e quello dell’arte, non sono poi così lontani quanto a caratteristiche dei lavoratori. Certo, è vero quello che avete detto: i lavoratori e lavoratrici del mondo dello spettacolo hanno compiuto dei passi in più, dei passi in avanti. Ma in entrambi i casi si tratta di lavoratori e lavoratrici che hanno uno scarso riconoscimento sociale, che vedono un significativo arretramento nella percezione dei propri diritti, non costituiscono un blocco sociale unitario, hanno un problema di rappresentanza. Però vorrei continuare con una nota positiva, perché se vedo in particolare al mondo dello spettacolo dal vivo, nonostante ci sia ancora tanto da fare, mi sembra però che negli ultimi anni gli artisti abbiano compiuto un percorso che li porta oggi a definirsi lavoratori e lavoratrici, oltre che creativi e creative. Per semplificare, parole e concetti come agibilità, contributi, contratti... tutto questo era spesso considerato come una noiosa burocrazia, diciamo un affare da commercialisti. Oggi invece c’è più la coscienza che, invece, tasse, contributi, contratti, vogliono dire diritti, professionalità e, appunto, riconoscimento. Sono un artista, mi muovo nel campo della poesia, della creatività, svolgo un ruolo sociale che però difficilmente mi viene riconosciuto. Ecco perché parlo di riconoscimento. Allora, se non mi riconoscete come tale, allora pensatemi come un lavoratore: pago le tasse, verso contributi previdenziali, genero economie. Mi stai chiedendo in quanto artista un’opera e la stai chiedendo a me perché evidentemente tu non sei in grado di farla. Quindi ho una professionalità e proprio come in ogni altro lavoro e ogni altra transazione economica, anche quella che lega me e te deve essere regolata da un contratto. Sembrano cose banali ma vi assicuro che non lo sono. Il fatto che ve ne sia più consapevolezza oggi è frutto di un cambiamento che è lento, che è difficile perché è un cambiamento culturale e, quindi, difficile. E siccome è un cambiamento culturale, deve essere un cambiamento collettivo. 

Mi chiedevi della mia esperienza di attivista. In effetti io ho sempre cercato di lavorare in rete, cerco di farlo ancora oggi e credo di essere cresciuto moltissimo, sia personalmente che professionalmente, grazie all’associazionismo. Sicuramente la prima esperienza di rilievo che posso raccontarti, sperando che vi sia utile – anche se so che voi un po’ la conoscete – è quella di C.Re.S.Co, che sta per Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea, che nel 2010 ho contribuito a fondare e di cui sono stato anche presidente. Credo sia significativo raccontarvi che questo coordinamento è nato da un convegno di un centinaio di operatori che si occupavano, nel teatro e nella danza, di contemporaneità. Il titolo del convegno era significativo Vietato parlare dell’aurora, cioè ci siamo dati come regola quella di non parlare di poesia, di non parlare di linguaggi, perché sapevamo già che questo ci avrebbe diviso, che le estetiche ci avrebbero diviso. Dovevamo parlare di ciò che invece ci univa e ciò che ci univa erano dei problemi: il mondo del contemporaneo aveva all’interno una grande diversità una disomogeneità pazzesca tra realtà minuscole e invece centri di produzione finanziati dal pubblico. C’era e c’è tuttora un forte disequilibrio territoriale, una mancanza di riconoscimento di alcune esperienze spesso vitali per il settore, per esempio le residenze creative, per esempio i tanti spazi che si prendono cura di molti gruppi, di molti artisti con continuità nel tempo. C’era un’enorme frammentazione e un’assoluta mancanza di rappresentanza. Quello che ci siamo detti è stata una cosa banale: benissimo, di questi problemi nessuno si farà carico se non interveniamo noi, anche perché nessuno ci conosce e nessuno riconosce questi problemi. Spesso i lavoratori dell’arte in generale sono un po’ come le malattie rare per le cause farmaceutiche: esistono, però non conviene occuparsene. Ecco, allora occorre dare degli elementi in più e degli incentivi perché si occupino di noi. Quello che abbiamo deciso allora è di farci carico di una proposta di cambiamento. Occorreva conoscersi e quindi siamo partiti – come so che avete fatto anche voi con un censimento – rendersi visibili, studiare e proporre.

Credo che possa essere anche interessante raccontarvi le prime cose con cui ci siamo dovuti scontrare. Io ricordo l’intervento di una persona che era un po più grande di me, ma non così tanto più grande di me, che quando facciamo questa proposta a margine del convegno disse: “Ma l’abbiamo già fatto noi, ci abbiamo già provato, ci hanno già provato, è dagli anni ’70 che ci provano”. Per carità, non fatevelo dire. Un’altra cosa era: “Ma che cosa volete, fare l’AGIS di serie B?” (L’AGIS è la principale organizzazione di categoria). No, non ci interessava. E poi: “Chi lo farà?”, nel senso di quale persona guiderà questo movimento. In quattro anni, dopo circa quattro anni della nostra esistenza, è maturata la convinzione di rivedere i meccanismi, le regole di assegnazione dei fondi, del famigerato FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. E quindi siamo riusciti ad avere una mitigazione del criterio di storicità, Cioè, in pratica, che i fondi venivano assegnati in misura maggiore alle realtà che potevano vantare una storia maggiore. Invece abbiamo proposto l’importanza della valutazione del progetto, della qualità, il riconoscimento delle residenze creative, la categoria degli under 35 – che poi per carità ha generato anche delle storture, ma insomma nelle nostre intenzioni doveva essere qualcosa per aiutare il ricambio generazionale – di avere dei parametri ridotti per chi per la prima volta si affacciava al finanziamento pubblico, siamo intervenuti in contesti locali e regionali e da 15 soggetti, oggi C.Re.S.Co ne conta 240. Prima ho detto che una domanda era “Sì ma chi lo farà?”, perché la richiesta che ci veniva dall’esterno allora era chi potrà guidare questo movimento. Ecco, sono reduce da poco dall’ultima assemblea di di C.Re.S.Co e, raccontandoci aneddoti da ex presidenti, ci siamo detti che forse la forza di questo coordinamento era stato proprio quello di essere stato pensato dall’inizio per prescindere dalle persone. È ovvio che qualsiasi organismo è fatto dalle persone che lo compongono – AWI adesso è fatto da voi e non da altri – ma sembrava impossibile e suonava strano pensare che, per esempio dopo aver costruito dei contatti personali in ambito ministeriale, dopo due anni potesse essere un’altra persona ad arrivare a questi contatti, e poi un’altra ancora. Ecco, mettere in atto dei meccanismi, delle regole interne, costruire degli strumenti di partecipazione più allargata possibile, fanno in modo che questo rinnovo sia possibile, ed è sano per un motivo. Non per evitare personalismi, ma perché le energie a un certo punto ti abbandonano, perché lavorare nell’associazionismo, lavorare in rete costa fatica e a un certo punto c’è bisogno di darsi il cambio alla guida del carro. E poi, un altro risultato di C.Re.S.Co è stata anche la nascita di Smart, che viene fuori anche da lì, ma forse di questo magari parliamo più avanti.

Il reddito di discontinuità

00:27:00

[R.M.]: Grazie Donato, io volevo un attimo fare una piccola somma di similitudini e differenze dopo questi due interventi. Da una parte, quanto ci ha detto Eugenio Delfino, come art workers ad oggi purtroppo non abbiamo da nessuna parte un elenco di professioni – seppur sommario, seppur non completo e da rivedere – riconosciute della nostra categoria da qualche ente previdenziale. Dall’altra, come hai anche già accennato tu, Donato, questa traiettoria di C.Re.S.Co l’abbiamo un po’ vissuta come AWI, perché AWI nasce appunto da questo sforzo di immaginazione politica di un gruppo di lavoratrici e lavoratori che hanno voluto a un certo punto iniziare a mettere in comune i problemi per cercare delle possibili soluzioni. Hai detto anche di aver visto cambiare tante cose in pochi anni e questo ci incoraggia molto. Per esempio, in questo frangente vorrei provare a parlare di una delle rivendicazioni del settore dello spettacolo che ha avuto più eco ultimamente, ovvero il reddito di discontinuità, a cui anche come AWI abbiamo cercato in qualche modo di dare il nostro contributo. Quindi chiederei a Eugenio Delfino – che appunto l’ha accennato nel suo intervento di prima – di approfondire con noi questo tema. Quindi se ci puoi dire cos’è questo reddito di discontinuità, da quali esigenze e da quali voci è nata questa proposta di legge e quale è stato l’iter che ha seguito fino ad oggi. Sarebbe secondo me interessante anche capire se in qualche modo le mobilitazioni collettive delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo, ad esempio quelle che abbiamo visto durante il Covid – penso a quella dei bauli – hanno portato alla sensibilizzazione pubblica e politica sulla condizione dei lavoratrici e dei lavoratori e al passaggio in qualche modo della proposta di legge in Parlamento.

[E.D.]: Cercherò di dirvi cos’era, cos’è, cosa avrebbe dovuto essere, proprio a partire da quel movimento dei bauli. Allora, qual è stato lo scopo? A un certo punto, quando c’è stata la pandemia, tutti quanti hanno capito una cosa che per molti è ignota: che i lavoratori dello spettacolo, dell’arte, i lavoratori che si occupano di arte – chiamiamola così, poi andiamo nello specifico – sono dei lavoratori che per loro natura sono discontinui. Che è una discontinuità diversa dal contadino, perché il contadino ha una discontinuità legata ai flussi della natura: c’è un momento in cui si deve seminare c’è un momento in cui si deve arare, c’è un momento in cui si deve raccogliere. Il lavoratore dello spettacolo è discontinuo in sé non perché deve aspettare qualcosa ma perché ogni tanto sale su un palco, ma prima di salire su un palco e dopo che ne è sceso, il lavoratore dello spettacolo continua a lavorare alla sua professionalizzazione, alla sua professionalità, all’estro che lo rende unico e irripetibile. Quando c’è stata la fusione dell’ENPALS nell’INPS, di queste cose non se ne è occupato nessuno – che tra l’altro sono cose di cui non si occupa nessuno da molto tempo. Quando c’è stata la pandemia, improvvisamente è scoppiato non soltanto il caso, diciamo così, che siamo dovuti rimanere a casa, che i cinema, gli spettacoli, i teatri sono stati chiusi... ma è scoppiato il caso che a un certo punto ci si è accorti che i lavoratori del mondo dello spettacolo, quelli iscritti al fondo pensioni lavoratori dello spettacolo presso l’INPS, ma anche tutti gli altri lavoratori che si occupano di arte e che sono diversamente iscritti all’INPS sotto varie forme, non avevano nessuno strumento di tutela. Qualcuno poteva prendere una NASPI, quelli che sono inseriti stabilmente nei fondi lirici, nelle orchestre stabili e tutto quanto, hanno avuto la cassa integrazione in deroga, mentre tutti gli altri non avevano niente. Non avevano niente, non avevano neanche diritto, per la loro stessa natura, a quei bonus elargiti dal Ministero della Cultura che prevedevano questa storia delle giornate, che prevedevano il fatto che a un certo punto se avevi lavorato all’estero e ti eri dimenticato di usare il modello A1 non avevi diritto, se eri stato in maternità per un anno, non ne avevi diritto perché la maternità è trattata a parte e non è iscritta al fondo pensione dei lavoratori dello spettacolo. Siamo partiti da lì, abbiamo scritto questa bellissima norma che è contenuta nella legge delega. Dopodiché, è successo il disastro più totale. Questo governo, che non sa leggere nemmeno la lingua italiana, perché quello che c’è scritto nella legge delega sull’indennità di discontinuità è chiarissimo, cioè l’indennità di discontinuità, secondo la delega approvata dal Parlamento nel luglio del 2022, doveva essere il nuovo e unico strumento di tutela dei lavoratori dello spettacolo in quanto discontinui. Invece – ne abbiamo scritto in un articolo che abbiamo pubblicato recentemente sulla newsletter di Left Wing insieme ad Alessandra Untolini, e che abbiamo intitolato l’articolo Storia di un tradimento normativo – l’unica cosa che è stata lasciata della legge delega è nell’articolo 1 che dice che i lavoratori dello spettacolo sono discontinui. Dopodiché, ve lo dico alla giurista, tutte le questioni che riguardano la previdenza sociale sono di competenza del Ministero del Lavoro e, subito dopo, del Ministero della Finanza, perché il Ministero del Lavoro e il Ministero delle Finanza, sono i ministeri vigilanti dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – cosa che c’è scritto anche nella delega. Invece, con improvvida rivoluzione il decreto sulla discontinuità è stato fatto dal Ministero della Cultura, ministro Sangiuliano di concerto con il Ministero del Lavoro. Cioè si è creato un nuovo bonus di cui non abbiamo bisogno, che intanto fa pagare alle aziende una percentuale aumentata di contributi previdenziali, perché comunque questa cosa qui ha già iniziato a partire dal 1 gennaio 2024, circolare numero 2 del 2024 dell’INPS. Ma, nello stesso tempo, fornisce un incentivo ai lavoratori che è molto meno di quello che si pigliava con l’ALAS, molto meno di quello che si poteva prendere con la NASPI. Il decreto attuativo della delega è stato scritto decisamente male. Io credo proprio che sia stato scritto volutamente così. Il Ministero della Cultura decide a chi dà il FUS, decide a chi dà i fondi per il cinema e decide anche a chi dà i soldi della discontinuità. Vorrei segnalare che il Sole24Ore, in un articolo di febbraio 2024 – quindi il Sole24Ore sicuramente non sono pericolosi comunisti – scriveva a pagina grande che soltanto il 25% dei lavoratori dello spettacolo avrebbe avuto diritto all’indennità di discontinuità. E concludo dicendo che l’indennità di discontinuità, così come viene applicata – con conteggi fatti in una maniera molto molto particolare previsti dalla legge – ai lavoratori dello spettacolo, quando gli va proprio tanto tanto tanto bene, gli arrivano 850 euro. Quindi un tradimento normativo grave che va sollevato, secondo il mio modestissimo avviso, in sedi istituzionali anche presso la corte costituzionale

[D.N.]: Mentre Eugenio parlava e faceva riferimento alla soppressione dell’ENPALS, al tradimento normativo che riguarda l’indennità di discontinuità, al fatto che Il Sole24Ore titolava che solo il 25% dei lavoratori e delle lavoratrici avrebbe avuto accesso, sono andato a riprendere una slide che faccio sempre vedere ai miei studenti e studentesse all’università, a proposito di cosa era l’ENPALS quando è stata soppressa. In quegli anni l’INPS, l’osservatorio INPS, censiva un certo numero di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, poco più di 300000, e sapeva che mediamente queste persone facevano circa 100 giornate lavorative all’anno. Perché ve lo racconto? Sapete qual era la normativa allora? Che, perché ti venisse conteggiato un anno di pensione, dovevi aver fatto almeno 120 giornate all’anno. Ora, se la regola diceva che per avere un anno valido ai fini pensionistici bisognava lavorare 120 giornate, ma in media le persone lavoravano 100 giornate l’anno, cosa voleva dire? Ve lo dico io cosa voleva dire. Nel 2011, quando c’è stato questo accorpamento dell’ENPALS dentro l’INPS, il bilancio dell’ENPALS era di circa 261 milioni di euro, un utile di bilancio. Le entrate di quell’anno erano di 1,5 miliardi di euro, le uscite di 1,24 miliardi e le uscite sono pensioni. Quindi vuol dire che ogni anno l’ENPALS incassava di contributi pensionistici pagati dai lavoratori e lavoratrici dello spettacolo più di quanto versava agli stessi lavoratori. Il patrimonio era di 3 miliardi di euro. In buona sostanza, a tutti quelli che dicevano, in quegli anni, che con la cultura non si mangia, avremmo dovuto rispondere che stavamo dando da mangiare, noi che lavoravamo nello spettacolo dal vivo. Ecco, di solito, le mie classi si indignano abbastanza.

[E.D.]: Allora, per precisazione rispetto alle cose che diceva Donato, nell’audizione al Parlamento in sezione unita del presidente dell’INPS, allora il presidente Tridico, proprio in costituzione della legge delega, il presidente ha prodotto il bilancio dell’ENPALS. Stiamo parlando del 2019. Il presidente affermava che all’INPS nel 2019 erano scritti 960 mila lavoratori, di questi circa 700 mila non avevano un’anzianità contributiva superiore a 30 giornate all’anno. L’ENPALS portava in dote in quell’anno specifico, bilancio consolidato 2019, un avanzo di bilancio di 4,5 miliardi. Voglio precisare che il bilancio dell’INPS non è un bilancio a sé stante, è un bilancio osmotico, i contributi che si versano per una cosa, si usano per quello che serve. Quindi il fondo pensione dei lavoratori dello spettacolo non viaggia autonomamente, perché se dovesse andare in perdita ci sarebbe un altro fondo che lo sostiene. Quando abbiamo pensato all’indennità di discontinuità, quindi non siamo partiti dai soldi che comunque c’erano, siamo partiti dal fatto che c’era, c’è e ci sarà la necessità per i lavoratori dell’arte, di avere un'unica – togliendo tutte le altre cose che non servono – indennità che copre, come si dice in termine tecnico, il vuoto per il pieno. Cioè il lavoratore lavora un certo numero di tempo, così come previsto dalle normative. Rispetto al guadagno della giornata, le giornate possono essere spalmate in un numero minore o in un numero maggiore. Il lavoratore lavora per un certo numero di tempo e il tempo in cui studia, il tempo in cui si prepara, il tempo in cui si professionalizza, viene riconosciuto dallo Stato come una indennità specifica. Perché si chiama discontinuità, non perché è disoccupato, perché in quel periodo sta facendo altro e lo fa sempre nell’unico scopo che quando sale su un palcoscenico, o quando dipinge un quadro, ha raccolto il frutto di tutto il periodo in cui ha pensato a quella cosa.

Perché Smart

00:40:52

[M.B.]: Grazie, mi sembra che il quadro sia ancora più completo e ugualmente disarmante. A proposito di questo, quello che ha disarmato anche noi è stata principalmente la difficoltà non tanto di interazione con chi fa la politica quotidianamente – con i senatori, i parlamentari con cui effettivamente anche noi siamo entrati in contatto – ma c’è stata difficoltà da parte di queste persone di farsi carico delle nostre istanze. Anche noi come AWI abbiamo sia partecipato alle rivendicazioni sia in piazza sia a quelle svolte nelle sedi istituzionali, per rendere visibile e riconoscibile il lavoro delle art workers e quindi cercare di farlo rientrare nelle riforme e nelle tutele che la proposta proponeva. Ci siamo uniti appunto alle battaglie dei lavoratori dello spettacolo, abbiamo avuto diversi dialoghi con alcuni senatori parlamentari, con la Commissione Cultura sia del Senato che del Parlamento. E abbiamo partecipato anche a livello istituzionale, quando ancora c’era Franceschini, al tavolo permanente dei lavoratori negli istituti e nei luoghi della cultura. Oltre a proporre modifiche e integrazioni nella scrittura di diversi DLS, come il 2127 – disposizione sul riconoscimento della figura professionale dell’artista e sul settore creativo, poi diventato testo unificato nel DDL disciplina del settore del lavoro nel settore artistico e creativo che poi, se non mi sbaglio, è diventato parte esso stesso della legge delega al governo – e altre disposizioni in materia di spettacolo. Espone i risultati che hai esposto brevemente anzitempo. Abbiamo quindi registrato un’enorme difficoltà da parte dell’amministrazione pubblica e delle istituzioni preposte a farsi carico di una maggiore attenzione e tutela per il lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici dell’arte. Sappiamo che il percorso da fare in questo senso è lungo, appunto la nostra conversazione già ce l’ha dimostrato, ma nel frattempo ci chiediamo se, attraverso un pensiero laterale mutualistico, sia forse possibile mettere in atto delle strategie di sopravvivenza per rispondere ai bisogni che comunque non si possono più rimandare. In questo senso la nascita di Smart ci sembra che abbia, di fatto, immaginato e creato una modalità concreta e inedita per tutelare e supportare i lavoratori del settore artistico, dello spettacolo e dell’audiovisivo, garantendo supporto nella gestione del lavoro, soprattutto attraverso la redazione di contratti, di pagamenti in tempi certi – che sappiamo essere tra le problematiche più frequenti per chi lavora in questi ambiti. Da qui la mia domanda a Donato Nubile, se vuoi raccontarci qualcosa di più, se vuoi raccontarci le motivazioni e le spinte per cui è nata Smart e quali sono i vantaggi effettivi che lavorare e partecipare alla vita cooperativa può portare agli art workers.

[D.N.]: Smart nasce in Belgio nel 1998 da una fotocopiatrice: c’era un piccolo locale e una fotocopiatrice. Voi sapete che in Belgio, così come in Francia, lo statuto dell’artista è molto più avanzato del nostro. C’era però il problema che gli artisti non conoscevano i diritti che pure in quel Paese gli venivano garantiti e spesso firmavano dei contratti che non avevano le caratteristiche tali per cui loro potevano accedere al welfare comunque previsto dalla legge. Quindi la prima cosa che ha fatto Smart è stato diffondere modelli di contratto, poi ha iniziato a spiegarli e poi è diventata quello che è adesso. E quello che è adesso, solamente in Belgio, una grande cooperativa che ha un fatturato di circa 175 milioni di euro, che è una cifra che deve impressionare non per la cifra in sé – perché insomma ci sono ovviamente imprese molto più grandi – ma perché è fatta da tante piccole attività da 1500 euro. Quindi per darvi l’idea della mole di artisti e di lavoratori e lavoratrici in generale che fa parte di Smart. L’idea era semplice: mettiamo in condizione gli artisti – è significativo che nasce in Belgio proprio dagli artisti visivi e dai musicisti – di avere i diritti che hanno, quindi portiamo questi diritti alla loro conoscenza e poi facciamo per loro il lavoro che loro non hanno voglia di fare, cioè, di base, quello amministrativo. Dobbiamo renderli consapevoli dell’importanza di questo lavoro e di come questo lavoro funziona, ma lo facciamo noi per loro. Oggi Smart arriva in Italia non mettendo una bandierina in un Paese, Smart è un progetto non internazionale ma direi transnazionale e arriva in Italia, così come in altri paesi d’Europa, con la convinzione che per una piena attuazione dello statuto europeo dell’artista occorra un’azione di lobby a livello europeo. Ed è per questo che prova a costruire una comunità più vasta rispetto a quella del Belgio. Arriva in Italia, non pianta una bandierina, ma cerca una comunità di artisti, la trova in C.Re.S.Co e finanzia. insieme alla Fondazione Cariplo e con il supporto di C.Re.S.Co, uno studio di fattibilità per capire come il loro modello potrà essere applicato in Italia. Siamo nati così nel 2013 e oggi siamo sì attivi nel mondo dello spettacolo, a cui appartiene circa il 70% dei nostri soci e delle nostre socie, ma operiamo in ogni campo della creatività e dei lavori della conoscenza. 

Perché fare parte di Smart: uno slogan è: “Per avere le tutele del lavoratore dipendente con la libertà del freelance”, cioè che si resta completamente autonomi nella pratica, quindi si prende in assoluta libertà decisioni rispetto al proprio processo creativo, alle persone con cui lavorare e si ha libertà di definire tutti gli accordi anche rispetto ai committenti, ma con il supporto di Smart. Si ha la certezza dei tempi di pagamento, quindi il 10 del mese successivo alla prestazione lavorativa si viene pagati anche se il committente non pagherà – e siamo l’unica cooperativa in Italia che lo garantisce. Si può avere assistenza, copertura legale e tutela dell’opera. Non c’è lavoro amministrativo, quindi ci si può concentrare sul proprio lavoro creativo, si può pensare di mettere la proprio nanoimpresa, se ci si concepisce come una piccolissima impresa, all’interno di un vero e proprio incubatore, che è la cooperativa. E poi perché si può avere più facile riconversione di carriera e si possono gestire anche talenti e professioni diverse. Che cosa voglio dire: io faccio sempre questo esempio di una nostra socia che era una scenografa e quindi quando lavorava come scenografa aveva il suo contatto collettivo nazionale di riferimento, aveva le sue regole rispetto ai contributi eccetera. Poi però questa persona esce dalla nostra sede, vicino c’è una decoreria, entra, scambia due parole e questa persona le chiede di lavorare al restauro di un comodino. Che è lo stesso lavoro che lei magari faceva per la scena, solo che se lo fa in scena è una lavoratrice dello spettacolo, se lo fa invece per la decoreria non più, e bisogna capire che contratto farle. E poi, magari, dopo lei realizza invece un comodino ex novo e si scopre anche designer e magari ci sono ancora altre altre complicazioni. È la stessa persona, con le stesse abilità che però deve fare tre contratti diversi, tre sistemi di contribuzione e tassazione differenti. Ecco, Smart prova anche un po’ a rispondere quanto possibile ad aiutare chi si trova in queste condizioni, a trovare una soluzione ottimale. Perché associarsi? Sì, le persone arrivano da noi di solito perché hanno un problema da risolvere, hanno un’esigenza molto pratica , però mi piace pensare che quelle che restano, restano perché scelgono di difendere l’idea che possa esistere un modello economico alternativo, sostenibile, solidale, anche nel mondo dell’arte e della creatività, con delle relazioni tra lavoro e capitale più eque e con l’idea di appartenere a una comunità più vasta. Quindi anche di combattere questa grande atomizzazione a cui l’essere lavoratore indipendente – a maggior ragione delle professioni della creatività – ci costringe. 

Sono molte le cose che potrei raccontarvi, le tappe del nostro sviluppo e gli aneddoti più significativi, ma ve ne cito due o tre. La prima è stata la scelta molto dibattuta di non specializzarci. Siamo nati da C.Re.S.Co, siamo nati dall’ambiente dello spettacolo dal vivo e in particolar modo dal teatro; all’inizio il 100% dei nostri soci e delle nostre socie veniva da lì. Quando sono arrivati invece lavoratori e lavoratrici da altri settori, i consiglieri – i miei colleghi che si occupano proprio di dare consigli e di aiutare i soci e le socie a gestire le loro attività – mi hanno chiesto: “Forse però adesso qualcuno di noi dovrebbe occuparsi solo dello spettacolo dal vivo, qualcun altro invece di chi lavora nella comunicazione, qualcun altro invece dei consulenti”. Era comprensibile questa richiesta, perché le stesse persone stavano immagazzinando informazioni di modi di lavorare, di concepire le relazioni col cliente, di concepire il proprio lavoro, in maniera molto divera. Ma la nostra scelta è stata quella invece di non specializzarci. Perché? Perché alla fine un consulente, un artista visivo, un’attrice, una regista, un coreografo, persino un lottatore di wrestling – sì, mi hanno proposto anche di prendere dei lottatori di wrestling – hanno fondamentalmente gli stessi problemi. Abbiamo visto una discontinuità lavorativa, un’incertezza di reddito, quasi nessun potere contrattuale nei confronti della committenza, un welfare assolutamente pieno di buchi, diciamo così, e quindi noi ci siamo convinti di dover mettere a punto, il più possibile, strumenti che potessero adattarsi a qualunque tipo di settore. In alcuni casi ci sono ci siamo riusciti, in altri meno in altri ancora la strada è da fare, ma siamo profondamente convinti di questo approccio del cercare quello che ci accomuna.

Le differenze di settore

00:54:03

[R.M.]: Grazie Donato, mi ha colpito rispetto al tuo discorso quello slogan sull’autonomia, direi essenziale per creare un prodotto culturale libero, ma con le tutele. Forse abbiamo visto in questa conversazione due modalità parallele per raggiungere questo obiettivo. Da una parte l’attività normativa e politica che ha un esempio nella legge sull’indennità di discontinuità o quella che era la proposta di legge; e dall’altra la maniera più laterale, creativa di sopravvivenza che è quella che rappresenta per esempio Smart ma che, appunto, a volte può andare in parallelo con la prima. Alla luce di quanto detto, per tornare un po’ al tema cardine di questa puntata, vorrei chiedervi, sia sulla base di quello che ci siamo dette oggi, sia in base a quella che è la conoscenza del nostro settore e di AWI, se potete dirci brevemente secondo voi quali sono le maggiori differenze che notate tra il settore dell’arte e il settore dello spettacolo e quale sarebbe un consiglio che vi sentite di darci come lavoratrici e lavoratori per un percorso verso un maggior riconoscimento regolamentazione e riforma del settore.

[E.D.]: Mi permetto di cominciare io perché non faccio l’artista... Allora, l’articolo 2 della legge 175 del 2017 aveva già delegato il governo precedente a operare una riforma, una revisione e un riassetto del settore dello spettacolo. Poi, successivamente, è intervenuta adesso, a luglio del 2022, la 106, la legge delega sul riordino dello spettacolo. Tra l’altro sono scaduti i termini anche prorogati dal decreto milleproroghe per attuare la delega, quindi non so che cosa faranno, ma hanno altro da fare, adesso c’è la legge di bilancio, sicuramente non si occuperanno dello spettacolo. Sommessamente, mi permetto di dire la mia, che è solo la mia, ed è quello che penso soltanto io. Allora, per prima cosa, esperienze come quella illustrata da Donato e come quelle che state perseguendo voi, sono esperienze fondamentali. Perché una delle cose che ho notato – e vi assicuro che da fuori si nota tantissimo – è che il mondo dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo è frammentato e diviso: ognuno pensa che il suo ombelico sia l’ombelico più importante del mondo. Siccome Jovanotti anche ha scritto la canzone sull’ombelico del mondo, vi assicuro che non esiste un ombelico che è più importante di nessun altro. Questo è il mio personale punto di vista di chi sta osservando dall’esterno. La seconda cosa che mi permetto di suggerirvi è: non immaginate più un elenco di professioni, perché in un elenco di professioni c’è sempre una professione che si dimentica. La cosa su cui si deve lavorare tutti insieme è una definizione di quello che è arte e di quello che è spettacolo. La definizione, per esempio, come ha detto la Corte di Cassazione già ormai quasi vent’anni fa, cioè tutto quello che si fa dal vivo, anche se può essere visto successivamente, quello è spettacolo. Ora, partendo da questa sentenza, io vorrei pensare la possibilità di ribaltare questa cosa dello spettacolo dal vivo con lo spettacolo che è fruibile dal pubblico. Quindi di conseguenza un quadro, una rappresentazione, tutto quello che poi è fruibile dal pubblico, anche una poesia – scusate, io sono molto pratico nella mia vita – però anche una poesia è un pezzo di arte che in qualche modo poi diventa fruibile se uno se la legge sul libro da solo. Dobbiamo smetterla, se vogliamo veramente trovare soluzioni di tipo previdenziale a questo settore, di parlare con il Ministero della Cultura. Per carità, il Ministero della Cultura è un aspetto importante, ma quando si tratta di previdenza e assistenza si deve parlare con il Ministero del Lavoro e col Ministero delle Finanze. Gli altri sono accessori, importanti ma sono accessori, come l’optional dell’automobile. Uno se la può comprare anche senza optional però l’optional la rende più bella. Un signore americano aveva scritto un saggio dicendo che il vostro mondo è un mondo che può essere tranquillamente tenuto sotto scacco perché, visto che fate un lavoro che vi piace, anche se vi pagano poco siete contenti lo stesso mentre lui, siccome è un economista, dice: loro sono contenti lo stesso, si guadagnano quel poco da vivere, però poi quelli che invece li dovrebbero pagare utilizzano la loro intelligenza per fare un sacco di soldi. Dovete smetterla di far fare un sacco di soldi agli altri e pensare pure di fare soldi per voi.

[D.N.]: Sottoscrivo ogni parola. Cosa posso aggiungere? A proposito della frammentazione, abbiamo citato il codice per lo spettacolo, sono andato a vedere nelle convocazioni nelle audizioni di ottobre 2023. 83 sigle differenti, 83, tra cui, non me ne voglia, anche la LAV, la Lega Anti Vivisezione che sicuramente avrà delle cose interessanti da dire – magari sul vecchio circo quello sugli animali – però 83 sigle diverse capite che è come non convocare nessuno. Ancora una volta quindi sottoscrivo l’appello: cerchiamo prima quello che ci unisce, così come accade con i soci e le socie Smart. Quando le persone vengono da noi, all’inizio l’incontro comincia così: “No, guarda io sono in una situazione molto particolare”, e poi si scopre che uguale a quella di altre 100, 200 persone. Per cui, ad esempio, smettiamo di parlare di codice ATECO, non inventiamoci un altro ente di previdenza. Ha ragione Eugenio, andiamo a bussare a quello che c’è già e, quando non ci aprirà, allora poniamogli il problema. Se non ci aprite, quindi noi che facciamo? Proviamo a cercare all’interno di altri mondi, di altri settori, contigui o no al nostro, quello che ci può interessare, quello che possiamo mutuare. Chiediamo, chiedete che valga anche per voi, chiediamo insieme che valga anche per voi. Coltivate alleanze, perciò, come già state facendo e anche all’interno di mondi che possono esservi ostili perché c’è sempre qualcuno con cui si può dialogare, anche nell’istituzione quella brutta che di solito non riconosce i diritti degli artisti, ma ci sarà quella persona magari illuminata e con quella dobbiamo parlare. Poi a volte le alleanze o le frecce al nostro arco arrivano da mondi e da luoghi impensati. Eugenio diceva smettetela di far arricchire gli altri con la vostra arte e pensate anche un po’ a voi. Io noto che Il Sole24Ore ha due rubriche, una si chiama Arte ed Economia e l’altra Arte e Finanza, ora questa ricchezza da chi è prodotta? Sarà legittimo rivendicare anche una ridistribuzione di quella ricchezza? Sì, devo dire, veramente sottoscrivo il discorso di Eugenio. Ancora una volta faccio l’appello a ridurre la frammentazione e a cercare quello che ci unisce, che è molto di più di quello che sembra, secondo me. Rispetto al lavoro, io sarei parmenideo, nel senso Parmenide diceva “L’essere è e non può non essere”, io direi “Il lavoro è e non può non essere”, quindi se è lavoro è lavoro. Cerchiamo che ci vengano riconosciute le tutele in quanto lavoratori e lavoratrici poi, in subordine, siamo anche lavoratori e lavoratrici dello spettacolo.

Cartoline

01:02:58

[A.S.]: Grazie mille, allora mi inserisco anch’io su questo finale di questa puntata veramente interessante e piena di spunti. Dato che questo programma si chiama Baci da AWI, vorrei chiedere ai nostri ospiti a chi vorreste inviare una cartolina, da dove e perché.

[E.D.]: Da un campo di rugby, davanti alla haka, a tutti quelli che pensano che lo sport, lo spettacolo, ’arte sia un posto dove nessuno può vincere da solo, e chi è appassionato di rugby come me lo sa che anche il più bravo giocatore non la vincerà mai una partita. Non è il calcio, non è altri sport. Quindi da un campo di rugby davanti alla haka, che è uno degli spettacoli più belli del mondo, a tutti i lavoratori dell’arte. Lavoratori dell’arte unitevi.

[D.N.]: A me è venuta un’immagine, mi è venuta l’immagine di quando di fronte ad un’opera d’arte ci si commuove. Ecco, io invierei una cartolina con una di quelle lacrime e le invierei, sì, al Ministro del Lavoro, ha ragione Eugenio, smettiamo di parlare con quello della cultura.

[A.S.]: Grazie mille ai nostri ospiti, Eugenio Delfino e Donato Nubile e alle nostre ospiti Rebecca Moccia e Marta Bianchi. Speriamo di aver dato qualche spunto di riflessione rispetto al tema delle politiche del lavoro nel settore artistico e dello spettacolo e siamo giunte alla fine di questa puntata. Nella descrizione del podcast trovate tutti i link a cui abbiamo fatto riferimento durante la conversazione e vi ricordo che per dimostrare il vostro supporto ad AWI potete sempre associarvi e trovate tutte le info sul nostro sito www.artworkersitalia.it. A presto e baci da AWI!
Links:

Smart: https://smartit.coop/la-cooperativa/ 

Left Wing: https://www.leftwing.it/ 

Convegno ‘Vietato parlare dell’aurora’: https://www.kilowattfestival.it/contenuto/vietato-parlare-dellaurora/ 

Codici relativi alla categoria di appartenenza dei lavoratori dello spettacolo: https://servizi2.inps.it/docallegati/Mig/Enpals/informazioni/imprese-enti/Bacheca/codici-lavoratori/tabella_categorie_Lavoratori.pdf

Eugenio Delfino, Donato Nubile, Marta Bianchi, Rebecca Moccia

Eugenio Delfino è pensionato, e svolge attività nel volontariato sociale nel contesto dei diritti del lavoro e di contrasto allo sfruttamento lavorativo per lavoratori socialmente deboli. È stato dirigente INPS, professore a contratto di “diritto della previdenza sociale” presso l’università di Torino, dirigente sindacale e anche capo stazione. Tra il 1991 e il 1996 ha svolto attività come cooperatore internazionale durante il conflitto della ex Jugoslavia. Attualmente collabora con Left Wing ed è appassionato di Rugby. Donato Nubile si è laureato in Economia Aziendale per poi completare la sua formazione con un percorso da attore professionista. È stato Presidente di C.Re.S.Co., di cui è membro fondatore, ed è ora Presidente di Smart Italia. Cura la direzione artistica di Campo Teatrale ed è membro dell'Osservatorio Critico del Premio Scenario, del Consiglio Direttivo di AGIS Lombarda e della Direzione Nazionale di CulTurMedia. Rebecca Moccia e Marta Bianchi sono socie fondatrici di AWI.

Nota